Recensione: Philip Roth, “Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno” ovvero Guardando Kafka, Einaudi

Philip Roth, “Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno” ovvero Guardando Kafka
Einaudi, pp. 45, euro 8
Traduzione Norman Gobetti
     In copertina a questo libro vediamo le serissime espressioni di due dei più importanti scrittori del novecento. Franz Kafka guarda fisso in macchina, appena meno consapevole di Roth; entrambi cercano però di mostrare il loro distacco dalla macchina. Kafka è il digiunatore del suo racconto, colui che digiuna non per volontà di digiunare ma perché disgustato dal cibo; Roth è un digiunatore in terza persona, solo nel raccontare mostra l’assurdità della vita. L’assurdità della vita di Kafka è reale e finirà poco dopo lo scatto della foto; poco prima del quarantunesimo compleanno Kafka morirà e sarà l’amico Max Brod a permettere al mondo di conoscere l’opera di colui che meglio di ogni altro scrittore ha saputo vedere i limiti e le contraddizioni dell’uomo. Roth invece non ha dovuto sopportare lo sforzo esistenziale che Kafka che ha dovuto affrontare con la scrittura, ovvero i limiti che la vita gli aveva imposto. Roth con la scrittura ha semplicemente mostrato l’avverarsi delle fosche previsioni di Kafka. Cosa sarebbe successo, può allora domandarsi Roth, se Kafka non fosse morto, se non avesse scelto di fuggire con Dora dalla prigione dove lo teneva inchiodato il vincolo familiare? La seconda parte di questo racconto breve è appunto dedicata all’esame di cosa sarebbe successo se il professor Franz Kafka fosse riuscito, come Freud, a sfuggire alla follia dei nazisti e ad approdare in America (titolo del primo, grande romanzo incompiuto di Kafka); cosa sarebbe successo, in altre parole, se Kafka fosse diventato uno dei personaggi di Kafka? Sarebbe successo che non avremmo avuto la letteratura, perché senza l’immanenza della morte Kafka non avrebbe mai pubblicato niente. Come il suo digiunatore non digiuna perché lo vuole ma perché non trova niente di adatto ! ad essere mangiato, così Kafka scrive solo perché la sua scrittura è la sua forma di digiuno nei confronti di un mondo che non è capace di addentare anche se lo vorrebbe. Per simulare questo distacco volontario, che solo di simulazione si tratta dato che oggi non è più pensabile essere così distaccati, un grande scrittore, e Roth lo è sicuramente, può creare dei personaggi che guardino Kafka (anche perché, quasi come in Kafka, i personaggi di Roth sono sempre lo stesso personaggio, l’ebreo apolide che cerca di capire il mondo o l’ebreo minacciato dai gentili). Ed ecco allora che il ragazzino ebreo di buona famiglia, protagonista di tante vicende rothiane, riceve al college che gli ha permesso di allontanarsi dalla famiglia la notizia della morte di Kafka; ricorda quindi l’arrivo del profugo ebreo, il suo timido corteggiamento della zia Rosie, la zitella della famiglia Roth, e la rottura di un legame che pareva destinato a concludersi in matrimonio. Il narratore non sa nulla di quello che succede tra il signor Kafka e la zia Rosie, ma lo intuisce, lo fa intuire a noi; ma restano alla fine le domande che le intuizioni non svelano.
     Cosa può capitarci del resto, guardando Kafka?

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