Recensione: Philip Roth, L’umiliazione, Einaudi.

Philip Roth, L’umiliazione
Einaudi, pp. 113, euro 17.50
Traduzione Vincenzo Mantovani

Simon Axler è un attore famoso; giunto ai sessantacinque anni però, diventa incapace di recitare. Salire sul palco lo spaventa, non riesce più ad immedesimarsi con naturalezza nei personaggi, il senso della finzione del teatro gli sfugge. Si rintana quindi nella sua casa, si isola da tutto e da tutti, e dopo pochi mesi lui e la moglie divorziano. Fine primo atto.
Come ci si aspetterebbe in una rappresentazione classica, nel secondo atto/capitolo c’è la riscossa del protagonista e, nel terzo, la caduta definitiva. La rinascita temporanea avviene, quasi inutile dirlo, attraverso la riscoperta dell’amore con una donna molto più giovane, la quarantenne Pageen. Non è un amore alla Liala. Infatti la donna ai ventitre anni ha annunciato ai genitori, amici del giovin attore alle prime armi, la sua omosessualità. Ora, passati i quaranta, decide di dare una svolta alla sua vita, e si mette col vecchietto.
Quanto sia plausibile una situazione del genere è opinabile, ma proprio in questo sta il punto di forza di un libro che, per numero di pagine e capacità di mantenere costante la tensione verso il prevedibile finale, si fa leggere molto velocemente e non consente di fermarsi molto a riflettere sulla credibilità di quello che sta succedendo. Dato che nulla è incredibile al giorno d’oggi, la descrizione minuziosa di un accadimento improbabile ma possibile, mette in risalto tutti i meccanismi che spingono le persone a desiderare che le cose appaiano in un certo modo, per fingere che siano così senza permettere loro di vedere come sono esattamente. E come capita spesso, si va avanti senza vedere e si fanno cose che poi, a mente lucida, non si vorrebbe avere mai fatto. E se le si guarda poi, si resta molto, ma molto umiliati.
E allora c’è una sola via d’uscita. Il terzo atto.

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