Recensione: Andrea Indini, Unhappy hour, Leone editore

Andrea Indini
Unhappy hour
Leone editore, pp. 233, euro 15

Ogni tanto può servire dare un’occhiata anche a romanzi che, pur non brillando per qualità letteraria, possono servire per mettere in luce alcune tendenze della macchina culturale. In questo senso il libro di Andrea Indini, giornalista che ha lavorato oltre che a Class News e Il Giornale anche per la Padania, è esemplare. Il suo libro cerca di imitare a tratti la letteratura ma, ingenuo, convinto di essere vero, si limita a fornire un versione ur-verista di ciò che vede; e ciò che vede è la televisione.

Pur nascendo da un’inchiesta svolta per conto del giornale, la rappresentazione che questo libro fornisce della vita dei giovani è infatti surreale, il che fa sorgere seri dubbi sulla realtà della fonte cui s’è abbeverato il nostro. Nel passaggio dai dati dell’inchiesta alla forma del romanzo può esserci sì stata una trasformazione involontaria oppure, malignamente, si è semplicemente palesata la tendenza cui ogni giornalista rischia di soggiacere ad assecondare le aspettative dei suoi lettori. Si ottiene così una storia manichea, nella quale è facile disporre il male da una parte ed il bene dall’altra nell’attesa scontata che il Bene, aiutato dall’Amore, trionfi. Ma andiamo, brevemente, alla storia.

I quattro ragazzotti, oltre a tutti i comprimari, che dobbiamo seguire per le duecento e passa pagine di questo libro sembrano usciti da una telenovela; nessuno di loro lavora, nel senso che di nessuno ci viene descritto cosa fa per procurarsi i soldi di cui dispone ampiamente per condurre la vita licenziosa cui tutti ambiscono pur essendo quasi tutti consapevoli della sua vacuità. Meglio; di qualcuno viene accennato di sfuggita una qualche occupazione nel mondo dell’informazione, ma così, en passant, perché la loro principale maniera per portarsi a casa i soldi sembra consistere nello scambio: scambio di droga, di parti del corpo, di indefiniti favori. Non è chiaramente loro preoccupazione concettualizzare il fatto che il valore di scambio si basa sull’indiscriminato sfruttamento del valore d’uso, perché il valore d’uso è fornito da qualcuno che non si vede e non interessa più a nessuno vedere. Il protagonista parrebbe comunque questo Andrea che, in un mondo dove una gestione disinibita della vita sessuale è la norma, insegue la bella Cecilia per strapparla dal languente fidanzamento, che minaccia di sfociare in matrimonio, con Matteo. Alla fine ci riesce, come da copione, e tutti vissero felici e contenti.

Ur-verismo, come dicevo all’inizio, perché nei tempi dove ciò che contava era la descrizione del rapporto con la materia, con gli strumenti che l’uomo usava per sopravvivere e progredire, si è prodotta una letteratura (verismo e poi realismo) con specifici intenti di cambiamento-attraverso-apprendimento. Oggi, che siamo arrivati e nessuno ha più idea di dove stiamo andando né di dove potremmo andare se non ad un altro di quei tristissimo ritrovi detti appunto happy hour, la letteratura si limita a produrre (ri-produrre) l’idea platonica, televisiva, dell’happy hour per permettere ai suoi fruitori di continuare a viverci dentro senza nessuno sforzo.

Un ultima nota per chiudere questa scanzonata recensione. Ogni prodotto ha i testimonial che si merita. La fascetta del libro recita: prefazione di Alvin. Io, manzonianamente, mi sono domandato chi fosse costui. Ebbene, il signor Alvin, oltre a lavorare attualmente a Radio 105, ha lavorato per la televisione, in particolare con la trasmissione Amici. Direi che il cerchio si chiude.

E’ l’Italia che va, unhappy.

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