Thorkild Hansen, Le navi degli schiavi, Iperborea

Thorkild Hansen, Le navi degli schiavi

Iperborea, pp. 273, euro 17.50

Traduzione Maria Valeria D’Avino

 

Dopo avere seguito lo sviluppo della struttura commerciale necessaria alla tratta degli schiavi nell’Africa del ‘700 ad opera dei solerti danesi ne La costa degli schiavi, in questa pubblicazione più recente troviamo la descrizione, come al solito puntigliosa e coinvolgente, di come la tratta si effettuasse effettivamente, ovvero del trasporto via mare lungo la rotta triangolare.

Le navi negriere partivano dalla Danimarca con il solo equipaggio e la merce necessaria al pagamento degli schiavi; dopo avere circumnavigato le isole inglesi scendevano verso l’Africa ed entravano nel golfo della Nuova Guinea; qui, al forte di Cristiansborg, ma anche lungo tutta la costa, venivano caricati schiavi e provviste per l’impegnativa traversata verso le Antille. L’arrivo al nuovo mondo vedeva la vendita dei sopravvissuti – la morte di 50 schiavi su 300 caricati era la norma ed in alcuni casi si andava anche peggio – e il carico della nave con lo zucchero prodotto tramite il lavoro degli schiavi; da qui si riattraversava l’Atlantico e si tornava a casa.

Non siamo in un romanzo e quindi, com’è ovvio, i fatti ci vengono presentati in maniera diretta e talvolta cruda; per mettere 400 persone in una stiva, occorre stiparle con molta cura, trattandole alla stregue di casse di pomodori; però, dato che è merce deperibile, occorre anche preservarla dal deperimento, e quindi provvederla di frutta, aria pulita e, nel limite de possibile, movimento. Nella descrizione delle pratiche legate a questo commercio vediamo insomma come la dinamica della riduzione dell’uomo a oggetto commerciabile non sia certo una novità della globalizzazione. I vari personaggi che vengono brevemente descritti sono soprattutto i capitani delle navi, figure tanto eroiche quanto meschine. Eroiche comunque, perché pochi osavano affrontare più volte il periplo e molti di quelli che l’osavano non tornavano; meschine quasi sempre, costrette a far tornare i conti tra i propri interessi personali – i capitani avevano una percentuale sul venduto – e la consapevolezza di avere a che fare con esseri umani.

A fornire dati su cui basare il resoconto ci sono anche i cappellani – essi stessi attivi nell’acquistare e rivendere schiavi – e i medici di bordo, figure fondamentali queste, visto che le malattie epidemiche erano la norma per persone che dovevano vivere per mesi sdraiate nelle stive occupando uno spazio di 185×40 centimetri e avendo sopra di sé 78 centimetri per respirare; i mezzi della medicina erano però molto limitati e molte volte i capitani preferivano gettare direttamente agli squali i primi malati, quando si sperava ancora di poter contenere l’epidemia. Nonostante le crudeltà e i morti, un numero sufficiente di schiavi arrivò alle Antille, come vedremo nel terzo episodio della trilogia, Le isole degli schiavi.

 

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