Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo

Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo
Einaudi, pp. 275, euro 23
traduzione Renato Solmi

 

Dopo avervi saturato per quasi due anni di ‘penserini’ tratti da quello che è il capolavoro di quell’anima tragico-savia che è Adorno – qui cito liberamente dalla Garzantina di filosofia – mi pareva doveroso fornirvi il suo pensiero, mescolato a quello di un altro dei principali artefici della scuola di Francoforte, in una forma più organica. 

Sviluppata in parallelo con i Minima Moralia, la Dialettica è uno strumento eccezionale per leggere la storia dell’uomo fino alla modernità. Il genere umano emerge da una struttura animale indifferenziata: iniziano a formarsi le società, nelle quali vige la divisione del lavoro. L’illuminismo, la liberazione compiuta dell’uomo dalla magia, ultimo lascito del periodo animale, inizia a compiersi già a questo livello. La figura di Odisseo è presa ad esempio del tentativo posto in atto al tempo dei greci di liberare il soggetto dall’unità mimetica con la natura. Ulisse è il primo campione dell’individualismo borghese e tutte le sue avventure non sono altro che metafore del tentativo vittorioso dell’uomo di liberarsi dell’influsso della natura. L’isola dei lotofagi o il canto delle sirene sono esemplificativi al riguardo; l’equipaggio di Ulisse cade preda di queste fascinazioni regressive, mentre lui, il campione del nascente individualismo, riesce a sfuggir loro grazie all’aiuto della ragione: “Ragione e religione mettono al bando il principio della magia. (…). Non si deve più influire sulla natura assimilandosi ad essa, ma bisogna dominarla col lavoro” (p. 26).

La religione, una volta diventata struttura di potere, istruisce l’uomo sul bisogno di rispettare le regole per il buon funzionamento della società. In altre parole, la società per ben funzionare non deve avere al suo interno teste pensanti, ma solo persone soddisfatte di rispettare le norme dettate dall’abitudine. Per nostra fortuna – che credo nessuno di noi rimpianga lo stato dei servi della gleba – arrivò l’illuminismo vero e proprio, dopo oltre due millenni di dominio della dimensione religiosa l’uomo inizio ad usare in proprio la ragione: “L’illuminismo è, per dirla con Kant, “l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro” (p. 86). Ma i presupposti dell’illuminismo, cioè che vi sia un ordine naturale che la ragione ha il compito di rispecchiare, sono essi stessi indimostrabili, proprio come le religioni. L’illuminismo cade vittima di se stesso. Kant cercò di limitare i danni che derivavano di necessità da un utilizzo non mediato della ragione pura con la ragione pratica: la ragione pratica attribuisce all’uomo un dovere ‘umano’ che la pura negava, in quanto gli unici doveri legittimi erano quelli imposti dalla logica scientifica; ma già allora il sistema produttivo aveva ragioni che stavano a monte della ragione: “Al servizio del modo di produzione dominante, l’illuminismo, che tende a minare l’ordine divenuto repressivo, si dissolve da sé. Ciò è già espresso negli attacchi che furono presto rivolti a Kant, lo schiacciatutto, da parte dell’illuminismo corrente. Come la filosofia morale di Kant limitava la sua critica illuministica per salvare la possibilit&agra! ve; dell a ragione, l’illuminismo acritico tese sempre, viceversa, per spirito di autoconservazione, ad annullarsi in scetticismo, per poter far posto all’ordine di cose esistente” (p. 99). De Sade e Nietzsche sono i due esempi dell’estremizzazione coerente dei principi della ragione pura applicati alla vita corrente.

“Se – scrive Kant ricollegandosi a Haller – una delle due grandi forze morali, mutuo amore e rispetto, dovesse venir meno, “allora il nulla (dell’immoralità) inghiottirebbe a fauci spalancate, come una goccia d’acqua, l’intero regno degli esseri (morali)”. Ma di fronte alla ragione scientifica le forze morali sono, secondo lo stesso Kant, impulsi e condotte non meno neutre di quelle immorali, in cui del resto trapassano immediatamente, se si orientano, anziché su quella possibilità nascosta, sulla conciliazione con il potere. L’illuminismo espelle questa differenza dalla teoria e considera le passioni “ac si qaestio de lineis, planis aut de corporibus esset” (Spinoza). L’ordine totalitario ha realizzato tutto questo alla lettera. Sottratto al controllo della propria classe, che imponeva all’uomo d’affari dell’Ottocento il rispetto e mutuo amore kantiano, il fascismo, che risparmia ai suoi popoli i sentimenti morali sottoponendoli in cambio a una disciplina di ferro, non ha bisogno di osservare alcuna disciplina. In opposizione all’imperativo categorico, e in accordo tanto più profondo con la ragione pura, esso tratta gli uomini come cose, centri di comportamento. Contro l’oceano della violenza aperta, che ha fatto realmente irruzione in Europa, i padroni avevano inteso proteggere il mondo borghese solo finché la concentrazione economica non era ancora abbastanza progredita. Prima solo i poveri e i selvaggi erano esposti alle forze capitalistiche scatenate. Ma l’ordine totalitario insedia completamente i suoi diritti di pensiero calcolante, e si attiene alla scienza come tale. Il suo canone è la propria cruenta efficienza. La mano della filosofia lo aveva scritto sulla parete, dalla critica kantiana alla genealogia nietzschiana della morale; uno solo lo ha realizzato fino in fond! o e in t utti i dettagli. L’opera del marchese De Sade mostra “l’intelletto senza la guida di un altro”, cioè il soggetto borghese liberato dalla tutela” (pp. 91-92).

Il fascismo ed il nazismo sono quindi una forma estremizzata di illuminismo, una forma di espressione dell’incapacità dell’uomo all’equilibrio. L’equilibrio è necessario all’uomo che non può sopprimere la spinta all’individuazione, ma senza per questo dimenticare la necessità del gruppo. L’individuazione di un nemico – il popolo ebraico – è poi funzionale al compattamento delle masse e alla perdita di responsabilità: “Chi assolutizza ingenuamente, per quanto universale possa essere il raggio della sua azione, è un malato, e soggiace all’abbaglio della falsa immediatezza. Ma questo abbaglio è un elemento costitutivo di ogni giudizio, un’apparenza necessaria. (…). Poiché la riflessione che spezza nel sano la forza dell’immediatezza, non è mai così persuasiva come l’apparenza che sopprime. Come movimento negativo, riflesso, non rettilineo, essa manca della brutalità inerente al positivo. (…) …il paranoico non è in grado di trascendere un insieme di interessi designato dal suo destino psicologico. (…) …. La paranoia è il sintomo dell’individuo semicolto. (…). La mezza cultura, che, a differenza della semplice incultura, ipostatizza a verità il sapere limitato, non può sopportare la frattura – spinta fino all’intollerabile – di interno ed esterno, destino individuale e legge sociale” (pp. 209-210).

Sulla facile vittoria dell’apparenza sulla riflessione si gioca infine il successo dell’industria culturale, il molock che ha inghiottito le ultime speranze dell’illuminismo espresse dal movimento modernista. L’industria culturale ha come unico scopo intrattenere le persone, far loro ‘passare il tempo’; “Divertirsi significa essere d’accordo. L’amusement è possibile solo in quanto si isola e si ottunde rispetto alla totalità del processo sociale, e abbandona assurdamente fin dall’inizio, la pretesa irrinunciabile di ogni opera, per quanto insignificante essa possa essere. Quella di riflettere, nella propria limitazione, il tutto. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene esposta e messa in mostra. Alla base del divertimento c’è un sentimento d’impotenza. Esso è, effettivamente, una fuga, ma non già, come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultima velleità di resistenza che essa può ancora aver lasciato negli individui. La liberazione promessa dall’amousement è quella dal pensiero come negazione. (…) … l’industria culturale ha il compito specifico di disavvezzare alla soggettività” (pp. 154-155). La soggettività si esprime con le scelte. Le persone sono ormai convinte dalla pubblicità a scegliere come rappresentativo un oggetto culturale che non rappresenta altro che gli scopi di chi organizza tutto con il solo scopo di continuare a funzionare, che vuole certificare la positività di ciò che esiste, unico mezzo per eliminare la possibilità di un cambiamento. La cultura non è più un fine, ma un mezzo per ottenere – e richiedere – altra cultura: “Ciò che si potrebbe chiamare il valore d’u! so nella ricezione dei beni culturali è sostituito dal valore di scambio; al posto del godimento subentra il fatto di partecipare e di essere al corrente, al posto della competenza dell’intenditore l’aumento di prestigio” (p. 170).

L’uso indiscriminato della ragione ha alla fine condotto ad un punto in cui la ragione non ha più diritto a distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Le regole di funzionamento dell’industria – culturale e non – l’hanno ormai vinta su ogni considerazione “limitatamente” umana: “Poiché la grande industria, liquidando il soggetto economico indipendente (sia revocando gli imprenditori autonomi, sia trasformando gli operai in oggetti del sindacato), sottrae sempre più il terreno economico alla decisione morale, anche la riflessione si atrofizza” (p. 213). Il punto finale dello sviluppo dialettico dell’illuminismo – che voleva fare emergere il soggetto dalla mimesi con la natura – è la distruzione del soggetto: “La dialettica dell’illuminismo si rovescia oggettivamente in follia” (p. 219), di cui la shoà è l’esempio più tremendo. Ci si può salvare da questa distruzione solo con la riflessione e con il pensiero, ponendolo a bloccare la prassi immediata che è, in quanto immediata, duplicatrice dei valori vigenti.

Lasciamo alle parole dei nostri filosofi la chiusa di questa recensione, sottolineando come, pur descrivendo tutti i limiti e le storture cui l’uso cieco della ragione ha condotto l’uomo tecnologico, essi – e noi con loro – non rinuncino, da veri illuministi, a sperare che la ragione, in fondo, a qualcuno possa servire: “Sospetta, è vero, non è la descrizione della realtà come inferno, ma l’esortazione standardizzata ad uscirne. Se il discorso, oggi, deve rivolgersi a qualcuno, non è già alle cosiddette masse, né al singolo, che è impotente, ma piuttosto a un testimone immaginario, a cui lo lasciamo in eredità perché non scompaia interamente con noi” (p. 273).

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