Recensione: Han Dong, Mettere radici, ObarraO edizioni

Han Dong, Mettere radici

ObarraO edizioni, pp. 322. euro 18

Traduzione Pietro Ferrari

La rivoluzione culturale in Cina fu un avvenimento di portata gigantesca, non foss’altro che per il numero di persone coinvolte. Convinto, a torto o a ragione, della necessità di investire in maniera più sostanziale l’intera società cinese delle idee animatrici della rivoluzione socialista, Mao iniziò un trasferimento ‘forzato’ delle forze intellettuali del paese verso le campagne. La famiglia Tao, la protagonista di questo romanzo, è appunto una vittima di questo processo. Mettere radici è la necessità dell’intellettuale di radicarsi in un posto, di vivere la stessa vita del popolo, per meglio capirlo e potere così portare le sue esigenze reali nell’arte.

Così il signora Tao e la moglie Su Qun, insieme a nonno e nonna Tao ed il figlio, il giovane Tao, si trasferiscono dalla città di Nanchino alle campagne di Sanyu, Il signor Tao è di professione scrittore e, in quanto tale, è tenuto a mettere radici, ovvero ad impegnarsi per rendere la rivoluzione organica al popolo. Attraverso gli occhi del giovane Tao, il narratore – che è poi l’alter ego dello scrittore – seguiamo il percorso dei Tao nel tentativo di avvicinarsi alla cosiddetta gente del popolo. E’ un percorso molto interessante, per la capacità di riportarci ad un periodo storico tanto lontano in cui un’intera nazione delle dimensioni della Cina ha tentato, fallendo, un compito che mai l’uomo si era posto prima. Attraverso l’applicazione metodica, che sfocia in interiorizzazione, di un’ideologia si cercò di raggiungere una nuova forma di convivenza civile.

Il libro è interessante anche sul versante letterario. Con uno stile che potremmo definire verista, Han Dong riporta fedelmente tutte le fasi in cui si svolse il mettere radici della famiglia. L’immensa povertà materiale della situazione non sconfigge i Tao, intimamente convinti della necessità storica del passo che il Grande Timoniere li ha costretti a compiere. Inizialmente occupano una stalla dismessa, poi costruiscono una casa. Piano piano entrano nella vita del paese, conoscono le persone e creano contatti; ma resta una frattura insanabile tra i genitori e gli abitanti di Sanyu. La frattura è l’inevitabile conseguenza della visione che l’intellettuale ha della realtà, frattura di cui il figlio, il giovane Tao, si renderà conto solo leggendo gli scritti postumi del padre, raccolti e pubblicati dagli amici solo dopo la morte di Mao.

Come in ogni romanzo verista, la sua bellezza sta tutta nella capacità dello scrittore di essere fedele nel rappresentare ciò che vede, che ha visto. Una fedeltà priva di ideologia permette ad Han Dong – il giovane Tao – di superare nell’arte di narrare il padre, i cui racconti didascalici, scritti per istruire il popolo sulle possibilità della rivoluzione, mostrano i limiti del tentativo di mettere radici.

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