Recensione: Per Olov Enquist, Un’altra vita, Iperborea

Per Olov Enquist, Un’altra vita
Iperborea, pp. 533, euro 19,50
traduzione Katia De Marco
Attraverso la scrittura si può giustificare quasi tutto. Ovviamente è più facile trovare una giustificazione a qualcosa che è reale, vero, che non a qualcosa frutto della propria immaginazione. Così riesco a ‘spiegarmi’ il fatto di avere letto una ‘storia vera’, cosa che io non ho mai fatto – chissenefrega delle storie vere, la letteratura è più vera della realtà – per il semplice motivo che la storia riguarda quello che io credo lo scrittore vivente europeo più importante, Per Olov Enquist. Spiegarmi come la storia della sua vita, dalla perdita del padre a sei mesi d’età fino alla liberazione dal vizio dell’alcol, mi sia piaciuta chiama in causa il suo inconfondibile stile. Come negli altri suoi romanzi salta da un punto all’altro della vicenda – tanto ben scritta da sembrare letteratura, non vita – e così, mentre ancora lo ancora vediamo piccolino che cerca di barcamenarsi tra il suo crescere e la madre maestra, scopriamo che ha avuto tre mogli; ci spiega i retroscena che hanno portato alla creazione dei suoi romanzi: il medico di corte è stato scritto in Danimarca mentre sprofondava nell’alcolismo. Il suo capolavoro, La partenza dei musicanti, è il frutto della distruzione di anni di lavoro sull’emigrazione svedese in America. Una volta distrutto quel materiale, che non lo portava da nessuna parte, Enquist ha visto il modo di unire la storia della sua famiglia alle  lotte sindacali americane.
     Il libro offre inoltre diverse chiavi di lettura dei romanzi, chiavi di lettura – in senso critico – cui non avevo mai pensato. Il giovane Enquist infatti ci racconta come i suoi primi prodotti letterari venissero stigmatizzati dai suoi colleghi d’università – tra gli altri Stigg Larsson – per dei contenuti derivanti da ‘un Freud mal digerito’. In effetti, crescendo come scrittore Equist si è completamente liberato di questi pericolosi avanzi di cultura ed è riuscito a produrre dei libri che delle graziose invenzioni di Freud fanno completamente a meno
     Poi si scopre che Enquist è, come si può dedurre dai suoi libri, molto lontano dall’intellettuale salottiero cui la postmodernità ci ha abituato. Cresciuto senza padre, si mantiene alle scuole superiori lavorando in segheria; da giovane gareggia nel salto in alto (Enquist è alto 1,97) e arriva a sfiorare le olimpiadi; poi capisce che per lui scrivere è tutto, e si butta a capofitto in quel mondo. Il libro si snoda attraverso i suoi romanzi – alcuni ancora non tradotti ma soprattutto di un paio gli accenni lasciano ben sperare – e ci racconta molto poco di quello che potrebbe interessare il pubblico che legge i romanzi di ‘storie vere’. La scrittura, il ruolo politico dello scrivere – Enquist si colloca genericamente a sinistra, una sinistra che è quella della socialdemocrazia svedese: è stato amico di Olof Palme – è fondamentale per il nostro autore. Dal solitario lavoro dello scrivere comunque Enquist approda al corale compito del mettere in scena un’opera teatrale. Questa nuova fase è importantissima – ha lavorato con Bergman – perché lo porta a comprendere il ruolo che diverse persone possono avere nel fornire la lettura giusta di un lavoro su carta. Il tutto, la sua vita, si conclude con i tre tentativi di disintossicazione dall’alcol.
     Per essendo un libro costruito su fatti personali, Enquist è estremamente sobrio nel raccontarceli. Riesce a mantenere questa sobrietà sfruttando, com’è ovvio, un artificio letterario, ponendo cioè per quasi tutto il romanzo la storia al di fuori di sé, come se riguardasse qualcuno che non è lui, usando la terza persona.
     Raccontandoci appunto un’altra vita.

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