Wu Ming, Manituana, Einaudi

Wu Ming, Manituana
Einaudi, pp. 613, euro 17.50

I Wu Ming ci hanno abituati al romanzo storico visto come strumento per raccontare la storia da un punto di vista diverso da quello solito. Nel resto del mondo questa pratica non è certo una novità, mentre per l’Italia, sonnacchioso paese abituato più che altro all’intimismo, genere di scrittura primariamente destinato a conciliare il sonno, è stata sicuramente una gradita novità. Q, 54, Asce di guerra sono stati ottime prove narrative su periodi dei quali credo pochi sapessero qualcosa. Con questo Manituana andiamo a dare un’occhiata agli anni che videro la fine degli stati irochesi del Nord America, il primo passo verso lo sterminio del popolo indiano.
La vicenda storica è di una certa complessità e ricostruita con la consueta dovizia di particolari. Gli inglesi avevano iniziato ad occupare l’America nel 1620 con la famosa nave dei padri pellegrini. Fino al 1773 in America s’erano stabilite tredici comunità di emigrati, che vivevano in uno stato di relativo equilibrio con le 6 tribù degli irochesi. La morte di Sir William Johnson, colui che aveva stabilito gli accordi con gli indiani sulla divisione dei territori, unita alla spinta rivoluzionaria dei coloni, che volevano liberarsi dei legami (tasse) con la madrepatria, danno il via alla progressiva espropriazione delle terre degli indigeni.
E’ impossibile riassumere in poche righe i dettagli, trattandosi poi di un periodo molto complesso, nel quale si intrecciano interessi economici e questioni personali. Basti un breve cenno alla trama. Ad una prima parte in cui si preparano le basi su cui si svolgerà la guerra e vengono introdotti tutti i personaggi principali, fa seguito il racconto della spedizione degli emissari degli indiani da re Giorgio per cercare di ottenere il riconoscimento dei diritti delle tribù fedeli alla corona nella lotta contro i coloni; le ultime due parti sono dedicate allo svolgimento della guerra.
Il giudizio sul risultato complessivo è diviso in due. Da un lato il libro è uno strumento notevole per essere informati su fatti relativamente ignoti: come dicevo all’inizio, meglio del sonnacchioso intimismo; dall’altro il libro risente di quella freddezza che ho sempre riscontrato nei libri dei Wu Ming. Bravi a creare trame, un po’ meno a mettere la vita nei personaggi che le loro trame animano. Il personaggio che ho apprezzato di più dei loro libri è, non a caso, Vitaliano, il reduce della guerra nel Laos che, quando racconta i suoi tre mesi nella foresta, ti fa veramente entrare nella storia. Ma Vitaliano non è solo un personaggio, è anche un uomo vero, in carne e ossa, e quella parte del romanzo è in pratica il suo diario.
Mi rendo conto che è un po’ improbabile che si possa trovare un indiano sopravvissuto allo sterminio che ci possa raccontare la storia del suo popolo. E’ giocoforza accontentarsi del piccolo indiano stampato in copertina, che volutamente spicca sulla bandiera.
Chi si accontenta, gode?

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