Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino

Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo
Mulino, pp. 145, euro 11
traduzione Carlo Sandrelli

Iniziamo con il chiarire che questa nuova cultura è limitata ad una ben definita fascia di popolazione dell’occidente ricco. Il problema – parliamo di problema perché riteniamo che questo tipo di cultura sia un grave danno per tutti – è che anche chi da questa cultura non è direttamente toccato non può fare a meno di risentirne gli effetti. Nel nostro mondo, tutto è connesso.
Un breve cenno storico. Il capitalismo delle origini, quello delle fabbriche inglesi descritte da Marx o dell’officina dove lavora Charlie Chaplin era un capitalismo largamente inefficiente. Non c’era alcuna forma di controllo sul prodotto né in termini qualitativi né in termini quantitativi; non parliamo di bilanci pubblici: il 70% delle nuove imprese falliva in breve termine. Questo capitalismo non era prevedibile, era un incitamento alla rivoluzione, come il buon Marx intuì.
Ma i limiti di questo proto capitalismo erano palesi anche ai suoi sostenitori, che così pensarono bene di burocratizzazione la produzione. Questo avvenne con l’assunzione di regole militari per la gestione del ciclo lavorativo. In questo modo, subentrò una relativa stabilità sia per quanto riguardava il lavoro sia per quanto riguardava il profitto. Ma il capitalismo è un mostro che divora se stesso e così attorno agli anni ’70 si assistette ad un passaggio epocale. Il controllo delle aziende passò dalle mani dei manager a quelle degli azionisti.
Scopo degli azionisti è guadagnare (far fruttare i soldi, dicono) il più velocemente possibile. Qui si verifica lo scontro di due paradigmi. Occorre infatti del tempo per sviluppare competenze lavorative, fedeltà all’azienda e affidabilità nella produzione, mentre la new economy, il nuovo capitalismo, ha bisogno dell’opposto; poco tempo per imparare a fare le cose e facilità ad abbandonare un posto di lavoro (i lavoratori flessibili, poveretti).
Questa nuova economia è il paradigma vincente. Per assurdo però, applicato con modalità esasperate questo paradigma ha portato alla perdita della controllabilità dei processi. Ha cioè permesso al sistema una tale libertà di movimento che il controllo delle singole parti è sempre insufficiente per predire la direzione del tutto. A questa dimensione oggettiva, di funzionamento sociale, si interseca una dimensione più soggettiva, seppure con ben definite conseguenze a livello del comportamento; parliamo del problema del talento e lo spettro dell’inutilità, come recita il titolo del secondo capitolo del libro.
Se si è parte di una struttura che richiede velocità di cambiamento diventa difficile, per chi possiede un talento, svilupparlo. Il talento è infatti una capacità più o meno innata ma che deve essere sviluppata con l’applicazione – richiede tempo – e trovare un luogo stabile – non esiste un talento al lavoro flessibile – e condizioni favorevoli per essere esplicitata. Invece, le strutture produttive moderne, implicitamente disincentivano lo sviluppo dei talenti, preferendo spostare l’attenzione sulle potenzialità.
La potenzialità è un concetto psicologico mentre il talento è un concetto pragmatico. La potenzialità rimanda alla colpa individuale – non hai le potenzialità – mentre il talento si basa, per essere giudicato, sulla produzione di oggetti che vengono valutati in base a ben definiti criteri. Inoltre, dato che le potenzialità sono sempre definite da chi giudica, il giudicato è sempre in balia di un’autorità più forte di lui, senza nessuna garanzia che questa autorità giudichi correttamente.
L’indebolimento delle masse di lavoratori che devono confrontarsi con questo idealtipo di lavoratore ottimale della new economy ha come conseguenza il loro diventare vittime del consumo. Il consumo diviene cioè la nuova, e forse unica, forma di libertà concessa alla molecola della macchina neo capitalista. Il consumo diviene l’unico momento in cui al singolo sembra di potere dotare di senso la propria esperienza, senso che non può più sviluppare con il lavoro flessibile, che non gli richiede un talento né gli garantisce che fra sei mesi sarà ancora in quel posto; magari ci sarà, sì, ma con un’altra funzione.
Ecco il punto conclusivo e centrale dell’analisi di Sennett. Per ciascuno è necessario sviluppare una continuità biografica, poter raccontare la propria vita seguendo un filo, e sviluppare un senso di utilità dalle proprie azioni. La società non fornisce però più uno schema in cui inserire queste due necessità – continuità ed utilità – e quindi l’individuo si trova perso. Sarebbe necessario opporre alla cultura del nuovo capitalismo una cultura vecchia, di tipo artigianale, in cui ciascuno si impegni a sviluppare una propria abilità, un proprio talento. Per fare questo è opportuno riacquisire in proprio la gestione del tempo, rifiutando la spinta neocapitalista ad usarlo per consumare. Siamo indotti a credere che l’acquisto di qualcosa ci permetterà di dare un senso alla nostra esperienza. Ed invece, ci si trova sempre più privi di esperienza reale.
Io credo che sia necessario porre a priori l’assunto che non sia possibile conoscere tutto, provare tutto. Occorre scegliere di fare quello che sappiamo più utile per formare i nostri talenti, accettando che ciò significa rinunciare alle nostre potenzialità, che sono immateriali. Questa scelta ci pone in opposizione ad un intero sistema, perché “la nuova cultura esercita sugli individui un’enorme pressione affinché essi non si lascino sfuggire nulla” (p. 144).
Per chiudere questo lungo intervento, cito il pensiero di un dimenticato dissidente russo, Andrej Platonov, che in una sua splendida satira del regime stalinista diceva, citando Puskin, che “la comune breve vita umana è del tutto sufficiente per compiere qualunque opera pensabile o per godere pienamente di tutte le passioni. Chi non ne ha avuto il tempo non l’avrebbe avuto nemmeno se fosse stato immortale.”
Immortali in un centro commerciale?

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