Duncan K. Foley, Il peccato di Adam, Scheiwiller

Duncan K. Foley, Il peccato di Adam
Scheiwiller, pp. 337, euro 20
Traduzione Paola Vallerga

Il lavoro genera valore. Una frase del genere pare assurda detta oggi, quando l’economia si regge e trema a partire dai valori fittizi eppur reali generati dalle opinioni di misteriosi finanzieri che scommettono sulla quotazione del greggio o sul valore del dollaro da qui a sette giorni. Eppure è proprio da questo concetto basilare che nasce l’economia politica propriamente detta, con il libro Sulla ricchezza delle nazioni che Adam Smith scrisse nella seconda metà del settecento.
Questo assunto serve, in subordine, a spiegare il meccanismo in base al quale le merci – che sono prodotte dal lavoro umano e quindi lo incarnano – siano il fondamento della ricchezza delle nazioni; ma, in primo luogo, serve a giustificare l’affermazione individualista dell’homo oeconomicus, il mostro che la nostra società mercantile si stava preparando a sfornare sin dai tempi di Omero. Mi spiego meglio.

Se ad ognuno deriva una posizione nella società in base alla sua capacità di produrre valore – di lavorare – non ha più senso alcuna gerarchia abitudinaria tra le persone. Sulle gerarchie inviolabili s’era retto l’occidente fino al rinascimento, quando appunto lo studio della natura inizia a mostrare le inevitabili crepe del sistema ideale su cui si era retto l’equilibrio sociale fino a quel momento. Sul finire del ‘700 queste crepe sono così profonde che i pensatori cercheranno di fornire delle giustificazioni teoriche a quanto stava succedendo. Ma non solo. Essendo comunque persone di un certo acume, i nostri pensatori, pur avvertendo la necessità dell’individualismo, riconoscono il bisogno di una indefinibile solidarietà di specie, che potremmo chiamare sentimento umano, e cercano quindi di fornire delle teorie in cui la spinta individualista si concili con il benessere sociale. Questo è appunto il peccato di Adam, avere sostenuto che il capitalismo, il libero mercato, riesce in base a leggi sue proprie ad assicurare il benessere collettivo.
Questo peccato – che potremmo definire l’elemento teologico di ogni teoria di economia politica – si ripresenta in tutti i pensatori che seguirono a Smith. Incontriamo in successione Matlhus e Ricardo, il compagno Carlo Marx, i cosiddetti marginalisti e, per finire la triade contemporanea Keynes-Hayek-Schumpeter.
Il percorso di questi teorici ripercorre abbastanza pedissequamente quello che è stato lo sviluppo generale della filosofia da Voltaire in avanti. Quella che nasce come una disciplina qualitativa, basata su una valutazione generale delle regole di funzionamento degli scambi tra gli uomini, si trasforma – tenta di trasformarsi – in una disciplina matematica che si arroga la possibilità di prevedere. L’insuccesso di questa pretesa è dimostrato dai ripetuti crolli delle borse mondiali, fatto che, se ci fosse anche soltanto la minima possibilità di prevedere tali crolli, porterebbe alla diserzione totale delle borse.
Il motivo di questi insuccessi è, a mio avviso, molto semplice. L’individualismo economico è un atteggiamento essenzialmente anti-umano e come tale non può essere il fondamento di una società che voglia definirsi umana. Ogni tentativo di usare una parte degli effetti del capitalismo per mitigare le sue storture non è altro che un tentativo di chiudere la stalla a buoi ormai trafugati in mandrie diverse – e ostili. Questa considerazione vale tanto quanto il suo contrario, ovviamente. Non vi sarebbero stati né progresso civile né miglioramento delle libertà individuali se l’individuo non avesse avuto la possibilità di affermarsi con il suo lavoro, cioè con il valore da sé prodotto. Il punto essenziale, come diceva Marx, è che l’eccedenza di questo lavoro dovrebbe essere socializzata e non individualizzata. Ma per ottenere questo risultato occorrerebbe che i singoli avessero il controllo dei mezzi di produzione dai quali estraggono il proprio valore, cosa che, nel capitalismo, non è possibile; sono i padroni a detenere i mezzi di produzione che permettono loro di vivere sfruttando il plusvalore. Ma non solo. Oltre a detenere i mezzi di produzione, occorrerebbe ai proletari di aver il possesso anche della coscienza civile che permettesse loro di sganciarsi dal limitato interesse economico per guardare più in là, verso l’interesse di tutti.
L’economia politica ha tentato, attraverso la valutazione dei rapporti degli individui con i mezzi di produzione, di effettuare delle prognosi sul destino del mondo. Ha dimenticato però il secondo corno del problema, il più arduo da affrontare, e cioè gli individui in rapporto con se stessi. Un rapporto invero molto poco chiaro, tanto che il peccato non viene nemmeno più percepito come tale. Mancando di questa percezione, l’umanità prosegue a capo chino verso l’inferno della fungibilità generalizzata, dove tutto è ridotto al minimo comune denominatore economico.
Peccare è umano, ma perseverare è diabolico.

One thought on “Duncan K. Foley, Il peccato di Adam, Scheiwiller

  1. Una capacità di sintesi davvero notevole, in questa recensione. Sarebbe interessante un confronto con le posizioni “libertariste”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *