Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Cortina

Paul Virilio, L’arte dell’accecamento
Cortina, pp. 88, euro 8.50
traduzione Rosella Prezzo

Come già per gli altri libri di Virilio che ho letto e presentato, anche questo si segnala per la lettura non facile. Una certa sinteticità del pensiero del filosofo ottiene l’effetto di illuminare le sue parole ma, nel contempo, offre il destro alla possibilità di far apparire confuso il testo al lettore vittima dell’incidente di cui si parla: “Con la ‘teleobiettività’, non soltanto i nostri occhi sono chiusi dallo schermo catodico, ma soprattutto non cerchiamo più di guardare, di vedere attorno e neppure davanti a noi, ma unicamente oltre l’orizzonte delle apparenze oggettive. E’ questa fatale distrazione a provocare l’attesa dell’inatteso: attesa paradossale, fatta di brama e di ansia, che il nostro filosofo del visibile e dell’invisibile (Merleau-Ponty) chiamava panico” (p. 10).
Come l’incidente avviene per caso, così l’arte contemporanea ha perso quel legame con la realtà che la rendeva necessaria, e dunque non accidentale: “Se l’arte sacra delle origini dell’umanità si applicava alla pittura dell’al di là – da qui la sua stretta relazione con l’astronomia e l’astrologia – l’arte profanata del tempo presente (telepresente) non s’interessa che all’al di qua attraverso gesticolazioni e contorsioni entropatiche che ne manifestano più l’inerzia che la vitalità. Qui dall’amatore divenuto consumatore d’arte ci si aspetta solo la sua passività, il suo conformismo, per poter ancora sorprenderlo, agitarlo quel tanto che basta attraverso uno spettacolo meno vivente che morto-vivente, con la speranza di vincere la sua resistenza residua alla noia attraverso l’incidente di un imprevisto che tende a supplire alla vista come l’inatteso sopprime l’attesa” (p. 37). L’imprevisto, l’incidente, è ciò che oggi viene chiesto all’arte perché solo in questo modo è stato possibile centuplicare la produzione artistica. Questo momento indica il passaggio da un mondo dominato dalla scarsità ad uno dominato dalla sovrabbondanza. Solo in una situazione di relativa tranquillità materiale l’uomo qualunque può pensare che l’espressione di una propria condizione particolare abbia una qualche rilevanza artistica. L’al di là dell’arte post-moderna è un irreale, strumento per dominare la paura della noia, che ha trovato legittimità ad esprimersi solo perché l’uomo contemporaneo ha perso la fiducia in un al di là che sostanzi la realtà. Attingere al mondo oltre il mondo non è più il solo modo per spiegare l’essere; dato che l’essere è diventato inspiegabile trovano giustificazione un infinità di modi. “Alla fine dell’ultimo secolo, Karol Wojtila dichiarava: “Il problema della chiesa universale è di sapere come rendersi visibile.” All’inizio del terzo millennio, questo è il problema di ogni rappresentazione” (p. 15).
Dato che tutte le rappresentazioni tentano, sgomitando, di rendersi visibili, tutte si relativizzano a vicenda; nessuna rappresentazione ha più il diritto di proclamarsi superiore alle altre: “In un documentato saggio sulla superstizione, Serge Margel segnala il sorgere, sulle macerie del potere simbolico, non più solo di pratiche settarie, esoteriche o d’altra natura, ma anche di future religioni individuali: “Da quando la società è limitata nel suo potere simbolico, la superstizione diviene inevitabile e dunque necessaria per supplire allo squilibrio che la costituisce (…) ed è allora che la società civile laica troverà quel tipo particolare di equilibrio nelle religioni personali che l’individuo si fabbrica da sé e per sé” (pp. 73-74).
Questo processo non sta però trasformando la realtà sociale in una comunità di monadi, come tutti possiamo vedere; non si dà infatti il caso che la generalità dei singoli si dimostri in grado di controllare le paure del post-moderno attraverso queste religioni personali. Ad esse si accostano emozioni di massa condivise. La condivisione però si gioca su un unico livello, quello più basso possibile, quello meno definito, meno preciso; “Mentre l’antica comunità di interesse del collettivismo si basava su idee di giustizia sociale (derivate indirettamente dal cristianesimo), la comunità d’emozione dell’individualismo di massa si fonda sull’amministrazione della paura, della precarietà grazie alle prodezze e alle promesse dell’istantaneità e dell’ubiquità”( p. 78).
L’arte quindi come strumento di accecamento basato sull’istantaneità e l’ubiquità contro l’arte come strumento di conoscenza basato sul tempo richiesto per produrla e fruirne e spesso, soprattutto per le arti plastiche (architettura e scultura) legata ad un luogo ben specifico. Ma un’arte siffatta non è allineata al trend economico dominante e tende quindi a risultare meno visibile. Parafrasando Woytila possiamo dire che il problema dell’arte universale è come rendersi visibile ad un’umanità che ha imparato a farsi beffe dell’universalità. L’arte che ha successo e che quindi garantisce visibilità al suo artefice è oggi quella che impressiona, non quella che significa: “E’ questo il doping in cui l’attività artistica, simile in ciò all’attività economica, soccombe laddove l’eccesso ha la meglio sulle prove e l’assurdità sportiva di un qualsiasi record sostituisce l’esperienza del genio. (…). Qui l’incidente dell’arte, come quello di una scienza priva di coscienza, è il suo stesso successo; sono le sue eccentriche performance a ridurla all’insignificanza” (p. 31).
L’arte ha quindi rinunciato al suo scopo fondativo, almeno quell’arte che viene veicolata dai canali di maggiore esposizione mediatica. Non più elemento strutturale della Grande Catena dell’Essere, l’arte contemporanea si è subordinata ad “un’estetica della finitezza (geosferica) in cui il progresso dell’esibizionismo è troppo spesso legato alle necessità del mercato, alle sue pratiche concorrenziali che non hanno niente a che vedere con l’incremento delle conoscenze, ma unicamente con quello di un gioco di società a circuito chiuso, dove lo spettacolo dell’inatteso ha soppiantato quello della bellezza” (pp. 31-32). Alla retorica domanda conclusiva del nostro lucido e disilluso filosofo (In un’epoca in cui la nostra visione del mondo è divenuta più teleoggettiva che oggettiva, come persistere nell’essere? Come opporre una resistenza efficacie alla repentina derealizzazione di un mondo in cui tutto è visto – già visto e immediatamente dimenticato?, p. 85) diamo una risposta altrettanto retorica ed altrettanto lucida.
La tele-visione è l’oppio dei popoli.

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