AAVV, Sul banco dei cattivi, Donzelli

Ferroni-Onofri-La Porta-Berardinelli, Sul banco dei cattivi
Donzelli, pp. 94, euro 10.90

Il sottotitolo di questo libro dice: “A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda.” Chi frequenta la libreria conosce bene la mia opinione su Baricco ed è evidente che non potevo esimermi dal leggere questo saggio; nel quale, oltre a smontare l’estetica pseudo dannunziana di Baricco, c’è spazio per parlare, nell’ordine, di Niffoi, De Luca e la Santacroce, del nuovo noir italiano e, last but not least, di Tiziano Scarpa.
Su Baricco si pronuncia Giulio Ferroni, cogliendo al balzo la palla lanciatagli dal romanzo a puntate che il nostro ha fatto uscire su Repubblica. In quest’ultima opera di genio del giovin gioiello della lettaratura nostrana, Ferroni porta l’attenzione sull’atteggiamento supponente di Baricco nei confronti del lettore. Un atteggiamento che serve a porre se stesso in buona luce (io so cose che tu non sai) e nello stesso tempo a tranquillizzarlo (ma non è poi così importante che tu le sappia). Walter Benjamin, il filosofo marxista ed ebreo morto sul finire della guerra, viene descritto da Baricco con termini che denotano l’assoluta mancanza di interesse per qualsiasi forma di approfondimento che un autore del genere richiederebbe. Il capitolo, nel quale viene esaminato anche il nulla di Seta, altra opera baricchiana, si chiude con una frase che sintetizza il giudizio espresso: “Un singolare nichilismo buonista e mediatico, narcisista e combinatorio, quello di Baricco, che ha tanto successo perchè va incontro alla brama di illusione, di proiezione estetica facile e dolce, di spettacolo leggero ed evanescente, di progressismo senza destinazione e senza contraddizione, della buona coscienza culturale contemporanea” (p. 31).
Imperdibili le parole di Onofri sul terzetto Niffoi-De Luca-Santacroce.
Niffoi è l’autore sardo portato alla ribalta da Adelphi con La vedova scalza. Prima di questo libro il nostro aveva già pubblicato svariati libri con un piccolo editore locale, Il maestrale, nei quali aveva cercato di innalzare la semplice materia popolare dei suoi luoghi con un linguaggio che è commistione di italiano e dialetto secondo il modello di Camilleri. Aveva cioè cercato di rendere sublime il basso. Ciò che manca a questo scrittore, a detta di Onofri, è la capacità di prendersi un po’ meno sul serio (come invece fa Montalbano), di non credersi l’erede di Bufalino. Resta una letteratura d’intrattenimento.
Il ‘sublime basso’ in cui sguazza De Luca mi pare invece più interessante, visto lo stuolo di adepti che l’indefesso scalatore è riuscito a raccattare. Onofri sottolinea come Erri sia riuscito, a partire da una materia prima di nessun interesse, a creare attorno a sè un’aura di venerabilità ed irrinunciabilità. Ogni suo gesto viene sacralizzato dalle parole. De Luca è riuscito a creare un mondo a partire dalla sostanza eterea di cui è costituito il suo spirito. Atto degno di un demiurgo, ovviamente, ma anche il gesto che tanta gente di sinistra aspettava quando Erri ha iniziato a pubblicare: “Una generazione ansiosa che aspettava qualcuno che le insegnasse a pronunciare la parola anima: i libri di De Luca sarebbero stati i suoi sillabari” (p. 47).
Le parole di La Porta sul NGI (nuovo giallo italiano) non sono meno incisive. I vizi del NGI sono numerosi ma tutti, in fondo, riconducibili alla difficoltà di questi scrittori di definire ciò che è bene in ciò che è reale. Assolti a priori dalla tendenza tutta italiana al compromesso, gli scrittori del NGI non riescono a porre nei loro romanzi quello slancio tutto americano verso l’assolutizzazione dello scontro. Si potrebbe però obiettare a La Porta che gli autori del noir vogliono esprimere la realtà così come si presenta. Una visione più distaccata, più europea, meno protestante dei conflitti ha come conseguenza dei gialli che non suscitano emozioni epiche. Questa è però una conseguenza della realtà sociale del paese in cui gli scrittori scrivono, non del tipo di scrittura. Al più, possiamo concordare con La Porta sul fatto che questi scrittori potrebbero avere la decenza di restare nei binari del genere senza pretendere di sconfinare e creare opere letterarie. Però sono artisti, ed a loro va lasciato un po’ d’agio nel movimento, altrimenti tanto varrebbe ripescare i manuali di scrittura del realismo sovietico e via andare.
La lettera aperta di Berardinelli a Tiziano Scarpa è ben scritta, accorata (Berardinelli è stato docente di Scarpa, e si lamenta del tradimento dello scrittore delle sue potenzialità) ma non riesco a formulare un giudizio in merito perchè di Scarpa ho letto un solo libro, tento tempo fa e non saprei dire quanto Berardinelli coglie nel segno.
In conclusione questo libro denuncia due aspetti della malattia della letteratura italiana. In primis la mancanza di vera critica da parte degli addetti ai lavori. Gli ultimi osanna di D’Orrico per il Barbiturico sono l’esempio lampante di questa poca serietà. In secondo luogo, vi è una fondamentale mancanza di pudore da parte dei nostri scrittori; in loro vi è la tendenza a mettersi sempre e comunque in mostra, anche in assena di contenuto portante, solo per il gusto vendicativo, che sa di piccino, di mettersi alla cattedra. Questo libro rappresenta il tentativo di rimetterli al loro posto.
Sul banco dei cattivi.

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