Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali?, Cortina

Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali?
Cortina, pp. 196, euro 13
traduzione Stefania De Petris

Con il libro di Bauman abbiamo visto il percorso che ha portato gli intellettuali a quella che è la loro posizione nella società attuale. Con il libro di Furedi invece analizziamo i motivi che mantengono gli intellettuali nello stallo determinato dall’assunzione del ruolo di interpreti piuttosto che di quello dei legislatori.
“Sfortunatamente la cultura contemporanea considera la verità un oggetto degno di immaginazione letteraria piuttosto che di ricerca intellettuale. (…) L’affermazione di Foucault secondo la quale non esisterebbe una verità veramente universale ha acquistato un credito sempre maggiore nei circoli accademici” (p. 13). Questa frase, liberamente tradotta, significa che il relativismo culturale è politicamente corretto. L’intellettuale che si proclama relativista può parlare ovunque. Attraverso il suo discorso inclusivo l’intellettuale afferma la sua posizione ed il suo ruolo sociale: la realtà è discorsiva. Se invece si continua a credere che vi sia una Verità, l’intellettuale dovrebbe definirsi a partire dall’oggetto di cui discute. Questo oggetto potrebbe anche non essere utile nell’immediato; continuerebbe però ad appartenere alla Verità. In questo modo si tornerebbe a reclamare il ruolo di legislatore per l’intellettuale; ma il legislatore pone dei limiti, che invece l’interprete abbatte.
Oggi si chiede che l’oggetto dell’interesse pubblico abbia un’utilità verificabile, che sia quindi facilmente condivisibile: “E’ la priorità accordata all’utilità di arte e istruzione rispetto al loro contenuto intrinseco ad alimentare continuamente la tendenza alla banalizzazione” (p. 25). L’azione del sapere banalizzato si muove su due distinti binari. Da un lato, vengono legittimati tutti i saperi particolari togliendo qualunque criterio di valutazione. Esempio lampante quanto succede nel mondo della scuola; nell’istruzione è ormai luogo comune mirare all’impegno dello studente: “Il messaggio che viene implicitamente trasmesso agli alunni è che essi saranno giudicati sulla base degli sforzi compiuti piuttosto che dei risultati raggiunti” (p. 157).
Dall’altro, poiché ogni forma di sapere è in sé valido, ognuno è chiamato ad esibire le sue capacità. La visibilità richiesta dall’esibizione abbassa ulteriormente i criteri di valore, poiché il pubblico mediatico, non riconoscendosi più in una Verità, sarà accomunato ad un livello tanto basso che possiamo chiamare del Minimo Comune Denominatore. In questo modo l’intellettuale che trasmette il suo sapere al grande pubblico cessa di essere un intellettuale, se non in forma parodistica, e diventa parte della macchina del consenso: “Come Hannah Arendt notava nei lontani anni ’60, ciò che abbiamo non è cultura di massa, “ma un entarteinment di massa alimentato dagli oggetti della cultura del mondo”. Arendt pensava che la commercializzazione dei prodotti culturali avrebbe portato alla loro degenerazione, e ammoniva che siamo di fronte a una “distruzione della cultura, compiuta per farne scaturire il divertimento” (pp. 141-142).
Gli intellettuali strutturati come casta non hanno più bisogno di rincorrere la verità, con i costi e le rinunce che questo comporta, perché la loro legittimazione è garantita dall’appartenenza alla struttura di potere che legittima il loro sapere come l’unico valido; in questo senso essi sono gli eredi degli intellettuali sopravvissuti al terrore e sbarcati negli organigrammi delle monarchie, prima di sangue e poi economiche, che gestiscono il potere: essi sono oggi, per la maggior parte, i funzionari del potere che distribuisce panem et circenses al popolo.
“…benché il lavoro intellettuale sia più visibile che in epoche passate, le relative funzioni sono svolte dalle istituzioni e dai loro professionisti piuttosto che dagli intellettuali. Gli intellettuali che cercano di trasmettere le proprie idee attraverso i media spesso si trasformano in teste parlanti al servizio dello spettacolo. Spesso scoprono di essere tollerati solo nella misura in cui assicurano frasi a effetto e intrattenimento” (p. 57). L’aumento di visibilità è legato a filo doppio alla diminuzione di efficacia e alla rinuncia alla Verità. Si costituisce così un mondo nuovo (ricordiamoci di Huxley) nel quale gli intellettuali operano, un mondo nel quale, venuti a mancare criteri di valore oggettivamente ritenuti validi, l’unica cosa che conta è la partecipazione. La partecipazione è regolamentata da norme che vengono fornite dai mandarini della cultura e che servono per permettere a ciascuno di sentirsi parte di qualcosa.
La partecipazione però, si rivela spesso vuota, puramente esteriore. Essa è l’indice del basso livello di aspettative che gli intellettuali, o meglio, visto che io riservo ancora un significato legislativo al termine, gli imbonitori culturali hanno verso il loro pubblico. Il pubblico non deve capire, basta che partecipi sentendosi in questo modo incluso in qualcosa di cui, per continuare a fare parte, occorre rispettare le norme di funzionamento. Norme che, naturalmente, riservano i posti di eccellenza agli imbonitori di cui sopra. Costoro, riconoscendo validità teorica ad ogni punto di vista, operano in favore del mantenimento dello status quo: “Oggi abbiamo intellettuali inglesi, intellettuali neri, intellettuali ebrei, omosessuali e femministe. Di conseguenza l’autorità intellettuale non poggia sulla capacità di rappresentare la verità, ma su quella di affermare l’identità di un gruppo o di una specializzazione particolare” (p. 62).
L’evoluzione storica della società mostra un curioso malinteso. In origine, dopo le prime fiammate rivoluzionarie dell’illuminismo, la destra ha sfoderato l’arma del relativismo per affermare la necessità dei propri privilegi. Ma, passato il tempo e visto che il minacciato universalismo della sinistra illuminista non si realizzava, la destra ha smesso di sostenere la propria singolarità, limitandosi a viverla. La sinistra, per contro, visto sconfitto il progetto illuminista ha ridotto le proprie aspettative ed ha iniziato a sbandierare le verità relative come luogo in cui fosse possibile la giustizia sociale: “…ma il potenziale conservatore della dottrina particolaristica (dell’aristocrazia) si è cristallizzato nel sospetto da parte della sinistra culturale nei confronti della tendenze cosmopolitiche e globali” (p. 83).
La validità assicurata di ogni punto di vista è il segno dell’infantilismo che pervade la nostra società. Ritenere che il punto di vista del bambino sia valido a dispetto della Realtà, accomuna l’atteggiamento del genitore verso il figlio, e ci può stare, e dello stato verso i gruppi di pressione esistenti al suo interno, il che va meno bene. Furedi chiude il libro affermando che “…trattare le persone come adulti è diventato uno dei principali doveri dell’intellettuale umanista” (p. 196). Purtroppo questa posizione di gestione del sapere è possibile solo da un’adeguata posizione di gestione del potere. Non è quindi legittimo sperare in una diffusione ad ampio raggio di un pensiero adulto e responsabile come norma, certamente non grazie agli attuali ‘intellettuali’.
I filistei del XXI secolo.

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