Recensione: Philip Meyer, Il figlio, Einaudi

Philip Meyer, Il figlio
Einaudi, pp. 546, euro 20
Traduzione Cristina Mennella

Difficile dire se, come pretende la fascetta del libro, questo libro diventerà un classico. Per verificare questa affermazione occorrerebbe aspettare una cinquantina d’anni e vedere se le generazioni future lo leggeranno ancora. L’ampia diffusione della cultura e l’ancor più ampia variabilità della società complottano entrambe contro il concetto stesso di classico. Più modestamente accontentiamoci allora di dire che si tratta di un buon libro, che illustra in maniera scevra da qualsiasi intento edulcorante la violenza di fondo attorno alla quale si è costruita la nazione americana. Se anche le generazioni future vorranno sapere qualcosa al riguardo, non è dato sapere.
L’autore dispone tre figure che ci raccontano la storia della famiglia McCollough. Il fondatore della stirpe, Eli, viene rapito dai Comanche poco dopo l’annessione formale del Texas da parte degli Stati Uniti, di fatto sottratti al Messico. La sua storia mostra lo stile di vita delle popolazioni native e illustra il rimpianto, tipico dell’immaginario americano, per uno stile di vita più naturale. Il secondo personaggio compare più di settant’anni dopo la nascita di Eli; si tratta di Peter Mcollough, pronipote di Eli e testimone inerme delle ruberie Yankee nei confronti dei messicani rimasti in Texas dopo il passaggio agli Stati Uniti. E per finire, J.A. McCollough, la prima donna della famiglia a condurre gli affari. E sono affari grossi, legati al petrolio trovato nelle terre rubate dagli americani ai messicani, che le avevano rubate agli indiani, che le avevano rubate a loro volta ad altri nativi, sempre più indietro nel tempo.
Il libro, come dicevo, è un buon libro, di agevole lettura e capace comunque di mantenere desta l’attenzione del lettore. Ci racconta la storia del paese più potente del mondo, o che si crede tale. Ci racconta, comunque sia la questione della potenza, la storia del paese che è la più grande macchina della storia per la creazione dell’immaginario collettivo, ma da un punto di vista spesso trascurato da detta macchina. In questo guadagna quindi una nota di merito, perché mostrare all’America tutta la violenza e tutto l’egoismo di cui è stata capace non è detto che ripaghi sul piano delle vendite. Va anche detto che l’acquirente di libri è un soggetto abbastanza difforme dal consumatore medio, e può darsi che la prospettiva di Meyer incontri i favori del pubblico anche in patria.
Forse è un po’ poco per diventare un classico; l’attuale situazione culturale del resto non richiede ‘classici in senso classico’, basta lo restino per qualche mese.
Il figlio, un classico con la scadenza a Natale?

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