Recensione: Staalesen Gunnar, Satelliti della morte, Iperborea

Staalesen Gunnar, Satelliti della morte
Iperborea, pp. 375, euro 16.50
Traduzione Maria Valeria D’Avino
 
Varg Veum, il detective protagonista della serie notissima in Norvegia sin dagli anni ’70, viene presentato al pubblico italiano con uno degli ultimi episodi, nel quale si racconta molto del passato del protagonista. Il giovane ‘lupo solitario’ (questa è la traduzione approssimativa del nome del detective) era un addetto dei servizi educativi del governo norvegese. Il suo primo incarico lo vede confrontarsi con un tipico caso da servizi sociali: giovane donna ex tossicodipendente con compagno violento in casa e figlio piccolo a rischio. Il nostro, descritto attraverso i segni di un’umanità non melensa e quindi onesta, insieme alla collega Cecilie si fa carico per sei mesi del bambino, in una situazione molto underground; poi la macchina amministrativa sociale norvegese riprende il suo corso e il piccolo Janegutt trova asilo presso una famiglia affidataria.
Il bambino tornerà nella vita di Veum in due successive occasioni, entrambe legate a fatti di sangue; ora, dopo circa venticinque anni, Cecilie torna a chiamarlo perché Janegutt è coinvolto in un altro crimine e, prima di fuggire, ha fatto sapere che l’ex educatore è il responsabile delle sue sfortune, e quindi la deve pagare.
Dopo averci portati al presente attraverso una minuziosa descrizione del passato, Staalesen dedica le ultime 100 pagine del romanzo alla chiusa che, come in ogni giallo che si rispetti, vedrà la soluzione di tutti gli enigmi.
Trattandosi di un thriller non possiamo ovviamente svelare nulla. Vorrei però segnalare questo libro che, pur rientrando appieno nel romanzo di genere e quindi risultando nel complesso abbastanza prevedibile, si segnala per l’originalità del punto di vista del narratore, completamente norvegese, che nulla concede all’imperante americanizzazione delle trame. L’unico punto di contatto con l’America è nel tipo dell’investigatore povero e onesto, che ha il suo capofila nei personaggi di Chandler. Questa mancanza di contatti con l’America televisiva e quindi con gli stereotipi del consumo culturale pregiudicano, temo, il possibile successo commerciale del libro.
Va da sé che questa è una nota di merito.

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