Recensione: Alberto Schiavone, Dolcissima abitudine

Alberto Schiavone
DOLCISSIMA ABITUDINE
Edizioni Guanda, pp. 350, € 17,00

La vita di Rosa inizia, per noi che la leggiamo, nel lontano 1958. Rosa guarda da un buco nel muro la madre che lavora, perché lo stesso lavoro, il lavoro più antico del mondo, come se ci fosse una graduatoria dei lavori vecchi e nuovi, toccherà farlo a lei. E Rosa in breve, per vie casuali che mostrano come la vita si dipani davanti ciascuno di noi in maniera imprevedibile eppur sempre aperta al positivo, diventa una molto brava, molto apprezzata e molto richiesta; e quindi, in un lasso di tempo ragionevole, molto ricca. Ed oggi, nel 2006, Rosa sta per chiudere il cerchio ritornando al punto da cui tutto scaturì.
Lo stile con cui Alberto Schiavone ci racconta la vicenda non è dei più agevoli, diretto e duro, poco incline ai lirismi, cosa che la professione della signora giustifica. La stessa Rosa viene costruita come una macchina, una macchina che deve continuare a funzionare per giustificare la sua esistenza e che, di fronte alla fine della funzionalità – anche le puttane brave invecchiano e la concorrenza è spietata – si trova un po’ spaesata e costretta ad abbandonare la linea progressiva del tempo per ripiegarsi su se stessa e le sue origini. In questo eterno ritorno forzato, poco credibile in fondo, perché l’eterno ritorno non si muove sul ciclo della vita ma nelle azioni quotidiane, ed in un’imprenditorialità da uomo europeo di fine ‘800 che le consente di diventare ricchissima, ma che poco si attaglia alla vita di una prostituta, stanno i punti deboli di una storia che nella scrittura ha la sua componente dominante. La la vita che da questa scrittura risulta, pur tutta costruita su di un’abitudine, alla fine si rivela molto amara. Altro che dolcissima abitudine!

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