Recensioni: Alain Badiou, Beckett l’inestinguibile desiderio, Il Melangolo.

Alain Badiou,  Beckett l’inestinguibile desiderio
Il Melangolo, pp. 64, euro 12
Traduzione Sergio Crapiz

 In questa nostra società postmoderna anche le cose apparentemente più semplici, che non avrebbero bisogno di essere né descritte né specificate, hanno bisogno di esserlo. Il risultato è che esse paiono divenire distanti e irraggiungibili, astruse. Eppure basta riflettere, fermarsi e pensare per togliersi dal flusso infinitamente positivo dell’esistente.
Quindi: là dove non vi è desiderio non vi è umanità. Ma occorre che questo desiderio sia essenziale, non indotto, non prodotto dalla macchina industriale, altrimenti si scade nel puro consumismo. Il problema è che l’essenza è nell’essere e l’essere è conosciuto solo attraverso il linguaggio. Occorre allora che i personaggi che esprimono l’essere con il linguaggio – i personaggi letterari – siano spogliati di quanto di inessenziale dimora in loro per consentire al lettore di addivenire a questa essenzialità. Tutti i protagonisti della prosa beckettiana si definiscono proprio per questo intento dell’autore, il suo inestinguibile desiderio. Ma andiamo per gradi.
“Ai celebri interrogativi kantiani “Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?” fa eco Beckett nei sui Testi per nulla con la terna di domande: dove andrei se potessi andare? Che cosa sarei se potessi essere? Che cosa direi se avessi una voce? A partire dal 1960 a questi tre interrogativi se ne aggiungerà un quarto: chi sono io se esiste l’altro?” ( p. 12). Il sapere dipende dall’andare, dal possibile possesso di un luogo ove dirigersi, luogo che l’uomo moderno ha smarrito. Molto spesso i personaggi di Beckett non si muovono, o hanno un moto circoscritto, esempio della spoliazione dell’inessenziale. Guardarli (= leggerli) significa vedere la nostra condizione universale. Il fare è l’essere dell’uomo; però l’uomo, diviso dalla realtà e bloccato in se stesso, vede a poco a poco crollare i puntelli che lo sostengono nel divenire eracliteo e si trova consegnato all’inutile analisi cartesiana del sé: non più fare bensì pensare, cogito ergo sum. Occorrerebbe, in altre parole, avere il coraggio di affrontare il divenire verso il nulla che ci sostanzia piuttosto che restare fermi ad analizzare questo nulla cercandovi un senso che non c’è. Infine la possibilità di speranza riposa sulla possibilità di nominare le cose, di dar loro un nome, di conoscerle. Mi è lecito sperare di conoscere le cose nella loro essenza che diviene. Questo ossimoro è tale solo nell’ottica cartesiana che divide (questo non era comunque l’intento originario di Cartesio) la realtà in un dentro opposto ad un fuori, un dentro che può dotarsi – a costo di dolore e sofferenza – di senso ad un fuori che è insensato.
Nella prima fase della sua vita Beckett rischiò di restare bloccato su questa aporia. Dagli anni ’60 in avanti la risolve con la scoperta dell’Altro: “…non è dal serrato confronto verbale con se stessi che dipende l’identità propria di ciascuno ma dalla scoperta della propria alterità” (p. 41).
“Come continuare a oscillare, senza rimedi, senza risorse e senza risultati, tra il nero-grigio dell’essere e il supplizio infinito del cogito cartesiano? (…). Di qui, a partire da Come è (1960), l’importanza crescente assunta dall’evento (che viene ad aggiungersi alla penombra dell’essere) e della voce dell’altro (che interrompe il solipsismo)” (p. 31). L’evento è l’inatteso dell’essenza che diviene. Se l’essenza fosse tale quale ce la consegna la filosofia tradizionale, essa sarebbe priva di sorprese, una volta conosciuta. Il fatto di vivere e potere continuare a stupirsi significa innanzitutto l’apertura costante verso la conoscenza e, in secondo luogo, il riconoscimento dell’Altro come tassello fondamentale di questa eventualità del vivere. L’Altro si manifesta come donna, in maniera accidentale (essendo Beckett maschio ed eterosessuale) ma in termini generali non è che ciò che è in grado di togliere il soggetto dalla penombra in cui dimora l’essere. Dato che l’essere è una costruzione del linguaggio, questo Altro è sempre un ricordo.
L’Altro (donna) interrompe il solipsismo cui il soggetto (uomo) è destinato. “L’uomo desidera il nulla del Due, a differenza della donna, custode errante e narrante dell’unità originaria e della purezza dell’incontro, la quale non desidera altro che il Due, nell’ostinazione infinita di un Due che perdura” (p. 48). L’uomo permane nell’essere, nella penombra grigia, la donna cerca di raggiungere il grigio vivendo nel linguaggio. Ma queste due figure sessuate non esistono prima dell’incontro, prima di esso sono indifferenziate. L’evento – amoroso – è ciò che permette di assegnare un significato alla vita ed il suo ricordo è ciò che spinge a continuare a cercare la conoscenza – di cui l’amore è una specie particolare – per i luminosi intervalli di senso che essa permette di gettare sulla penombra dell’essere: “L’amore è quell’intervallo in cui si persegue all’infinito l’indagine sul mondo. In quanto sperimentata e trasmessa attraverso i due poli irriducibili dell’esperienza, la conoscenza è quanto possediamo di più intimo e vitale, sottratta com’è alla noia dell’oggettività e stregata dal desiderio” (p. 48).

L’inestinguibile desiderio.

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