Recensioni: Serge Enderlin, Black out, Saggiatore.

Serge Enderlin, Black out
Saggiatore, pp. 185, euro 16
Traduzione Cristina Maiocchi
Titolo originale L’aprés-pétrole a commencé

Partiamo dal fondo. Questo è quello che scrive l’autore al termine della postfazione: “E l’Italia in tutto questo? Sotto la guida poco illuminata di Silvio Berlusconi, essa figura nei posti più bassi della classifica delle nazioni europee impegnate nella rivoluzione energetica che annuncia il dopo petrolio. Eppure avrebbe il necessario (sole, mare, vento), ma si segnala per una pigrizia che le costerà cara quando il petrolio inizierà a scarseggiare. Continua a prendere l’oro nero e il gas dalla Russia. Berlusconi e Putin sono buoni amici. Firmano bei contratti, destinati ad assicurare un flusso regolare di idrocarburi in direzione dello stivale. Perché cambiare una pratica che ha funzionato bene per quasi un cinquantennio?” (p. 185).

La domanda retorica finale illustra l’intento del libro, che sarebbe stato più chiaro se l’editore italiano avesse mantenuto il titolo originale: Il dopo petrolio è cominciato. Noi italiani di questa cosa non abbiamo piena coscienza, perché la coscienza non è un dato né immediato né spontaneo ma risulta pienamente mediato dagli strumenti tecnologici che il sistema produttivo ci permette di usare. E noi, al di là di poche eccezioni, magari subito sottolineate dai mezzi di informazione ma che in effetti non hanno nessun peso generale, continuiamo ad approvvigionarci di energia nei vecchi modi: combustibili fossili.

La realtà che si sta compiendo nei restanti paesi civilizzati è invece diversa. Buttata nella spezzatura ideologica l’idea che bisogna ridurre i consumi – giusta in teoria ma che nessuno realizza – i vari governi hanno iniziato a diversificare le fonti energetiche. Gli esempi che il libro riporta, frutto del lavoro quasi investigativo svolto dall’autore, sono numerosi e decisamente sconosciuti. Ad esempio, penso che pochi sappiano che l’America è il maggiore produttore di carbone del mondo; dato che il carbone è una delle sostanze più inquinanti che si possono usare per produrre energia elettrica, parrebbe logico che se ne disincentivasse l’estrazione. Leggete da pagina 94 a pagina 114 per vedere che non è così.

Non va bene per l’ambiente nemmeno nel nord del Canada, dove si è iniziato a sfruttare i depositi di sabbia bituminose, detentrici di petrolio di bassa qualità ma facilmente estraibile. Piccolo problema: per estrarlo e raffinarlo si sta in pratica distruggendo l’ecosistema. Anche i biocarburanti hanno delle pecche. Spostare la produzione di mais e granturco dal mercato alimentare al mercato energetico ha avuto conseguenze pesantissime per i paesi poveri, che si sono trovati nell’impossibilità di sostenere i costi per l’importazione delle derrate alimentari base. Non basta che un carburante non produca CO2 per renderlo accettabile.

Due parole anche sulla rinascita del nucleare. Gli impianti di terza generazione, quelli che il nostro lungimirante premier vorrebbe installare, sono in fase di verifica in Finlandia. L’impianto, che avrebbe dovuto essere inaugurato nel 2009 ha avuto una serie di slittamenti di data: siamo al 2017, forse. Il tecnico finlandese intervistato da Serge Enderlin ha detto che la Francia sta testando la correttezza dell’impianto. Secondo lui i francesi non avevano nessuna idea precisa di come sarebbero andate le cose. I costi sono lievitati a livelli improponibili. Le società francese ha affrontato il problema subappaltando parti dell’opera a ditte polacche, che hanno a loro volta subappaltato agli slavi. Risultato: le parti meccaniche non hanno passato la verifica degli standard qualitativi dell’ente per l’energia finlandese che li ha rispediti al mittente. Alla fine il costo ricadrà sulla società francese, ovvero sui cittadini francesi, visto che la ditta è a maggioranza statale.

In definitiva emerge un quadro simile a quello sostenuto anni fa in un libro pubblicato da Chicco Testa per Einaudi. Non c’è un’unica soluzione al problema dell’energia: meglio, la soluzione al problema consisterebbe nel consumarne meno, ma questa non è una soluzione per il sistema che vuole continuare a funzionare. Occorre diversificare le fonti di approvvigionamento, facendo sì che ciascuna sia il più compatibile possibile con l’ambiente, e andare avanti. Queste considerazioni sono valide nel nostro sistema, in cui le decisione non sono mai prese – chi ci governa è molto più cinico di quanto si possa pensare – in base a criteri umani ma prima di tutto economici e poi, solo se possibile e conveniente, ambientali. Se la sostenibilità economica è il discrimine che decide cosa è giusto fare, allora anche il responsabile delle miniere di carbone americane che, alla domanda sull’effetto serra cui il minerale contribuisce pesantemente, risponde: “si scalda, è vero, ma non qui”, ha ragione.

Dato che non è possibile ottenere da tutti, senza esclusioni, un atteggiamento ecologico, ci si limita a richiedere a tutti un atteggiamento economico.

Mi sembra il caso di osservare che la sensibilità ecologica è un atteggiamento che si è sviluppato quasi esclusivamente nell’occidente benestante, in cui i bisogni primari sono in massima parte soddisfatti. Quelli che si credono più sensibili alle tematiche ecologiche, si possono permettere questo atteggiamento solo perché sono garantiti a livello economico. Possiamo essere d’accordo teoricamente – non apriamo la discussione sul rapporto tra prassi e teoria, altrimenti non se ne esce più – con Latouche quando dice che il corpus delle idee dell’economia è una finzione indotta nella mente dell’occidentale, ma, di fatto, senza questa finzione potremmo essere rispediti nella natura vera e propria, assolutamente ecologica, in caso di Black Out.

Potrebbe non essere divertente.

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