Recensione: Vincenzo Rabito, Terra Matta, Einaudi

Vincenzo Rabito, Terra Matta

Einaudi, pp. 411, euro 18.50

a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci

Il lavoro dei due curatori di questo diario è stato immane, oltre che lodevole. Vincenzo Rabito, l’autore di questo diario, era un analfabeta siciliano nato nel 1899. Nel 1968, l’anno  che molti ingenui, o furbacchioni, hanno creduto avrebbe cambiato le cose, Vincenzo prese una Olivetti ed iniziò a scrivere le sue memorie. Ma era analfabeta. Mise quindi le parole, per come le conosceva, una dietro l’altra su oltre mille fogli a interlinea zero e senza punteggiatura, se non un punto e virgola a dividere i suoi fonemi trascritti. Se Joyce ha inventato il flusso di coscienza, Rabito l’ha trovato, questo flusso.

Come nell’Ulisse lo scrittore ci conduce senza nessuno sforzo all’interno della sua vita. Chi leggerà questo eccezionale documento avrà una visione della storia d’Italia dalla prima guerra al post sessantotto da un punto di vista assolutamente originale. Perché Vincenzo Rabito è uomo del popolo, quel popolo vero che si sarebbe perso, cancellato dal nascente consumismo nel quale i valori concreti si perdono all’inseguimento di chimere.

Quando è sul Piave a combattere nelle trincee, Vincenzo trova compagni con cui dividere le difficoltà. Tornato a casa si barcamena con il nascente fascismo. Poi c’è la seconda guerra e l’amministrazione della penuria alimentare. Il tutto però, senza mai porre falsi accenti moralistici, senza voler sembrare ciò che non è. Mi sembra importante far notare che questo è un diario autentico, scritto senza alcun interesse di compiacere il lettore. L’autore di diari spesso inganna il lettore – sia se stesso sia, soprattutto, il lettore, quando sa che ciò che scrive sarà letto da altri – perché vuole dare di sé un’immagine positiva, un’immagine che riflette ciò che lui sa e gli altri, e l’Altro, si aspettano. Vincenzo no, Vincenzo tiene alla roba e ai figli, non sa cosa sia la psicoanalisi ma tutto questo non gli fa perdere il lume delle ragione. Non tradisce se stesso per compiacere gli altri né permette che gli interessi economici gli facciano tradire gli altri.

Poi arriva la ricostruzione ed il consumismo. Arriva la prima televisione. I figli crescono a Vincenzo fa i sacrifici per mandarli a studiare. Ma i figli non si accontentano di studiare, vogliono vedere il mondo. Per questo servono i soldi, e Vincenzo li caccia, i soldi. Nel ’75 l’anziano Vincenzo Rabito smette di scrivere. Nell’81 muore. Le sue memorie, ritrovate dal figlio Giovanni, sono state donate alla Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Da lì, i due curatori hanno estratto questo libro.

Vale la pena di sottolineare come tutti i lettori di Camilleri potranno trovare in questa storia la radice della lingua delle avventure del commissario Montalbano. Per chi non è uso allo stile dialettale, è difficile estrapolare punti specifici da questo diario; trattandosi di un flusso, qualunque punto si equivale. Più o meno a caso allora, ecco l’autopresentazione di Vincenzo Rabito: “Io e mio fratello Ciovanni erimo inafabeto, perché alla scuola non ci avemmo potuto andare, però, con la boca che ci avemmo, nessuno si lo poteva credere che erimo inafabeto. Così, diciammo che solo con una crante querra potevino respetare ai lavoratori. Io e Ciovanni erimo forte socialiste, ma non sapemmo né lleggere nè scrivere, e passava questa mincia (e non serviva a una minchia). Solo la cente potiemmo sentire parlare e c’imparammo qualche cosa per mezzo della cente” (p. 15).

L’analfabetismo è solo uno stato dello spirito che Vincenzo Rabito sconfigge materialmente.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *