Roberto Rampi, L’ornitorinco, M&B

Roberto Rampi, L’ornitorinco
Umberto Eco, Peirce e la conoscenza congetturale
M&B, pp. 93, euro 15

Umberto Eco è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi romanzi. Più difficile è la parte saggistica, dal trattato di semiologia generale (1975) a Kant e l’ornitorinco (1997). L’Eco filosofo è in effetti di comprensione ardua, ma il suo contributo al panorama culturale attuale non va rilegato nel cantuccio degli specialismi: tutt’altro.
Determinanti nella storia intellettuale di Eco sono l’incontro con gli intellettuali francesi degli anni ’60 e con gli scritti di Charles Sanders Peirce, l’inventore della semiotica, che è da considerarsi alla stregua di una branca della logica; “logica, nel suo senso generale, è, come credo di aver dimostrato, solo un altro nome per semiotica: la quasi necessaria, o formale, dottrina dei segni” (Peirce, Semiotica, p. 131).
Diamo alcuni punti fissi per la discussione. Noi della realtà conosciamo solo i tramiti simbolici, ovvero i simboli che la nostra mente produce per rappresentare l’insieme di stimolazioni sensoriali che riceve dall’esterno. Ma questi simboli sono tutta la realtà, oppure la realtà continua ad essere ciò che provoca la produzione dei simboli? In altre parole, è corretta un’impostazione nominalista (empirista) o realista (idealista)?
Eco ripropone il pensiero di Peirce cercando il difficile equilibrio tra questi due estremi attraverso la terza via del pragmaticismo peirciano appunto, che si differenzia dal pragmatismo di James e Dewey, che è in fondo una derivazione dell’utilitarismo inglese, per una maggiore impronta epistemologica. Il caso dell’ornitorinco è usato da Eco per illustrare quelli che sono i problemi che la conoscenza del nuovo suscita in chi ne voglia discutere i fondamenti.
Quando nei viaggi di esplorazione di fine ‘700 venne scoperto questo strano animale, l’ornitorinco appunto, ci fu una certa difficoltà nel decidere a quale specie attribuirlo. A differenza di quanto accadde nel caso delle esplorazioni di Marco Polo, che catalogò i rinoceronti sotto la voce ‘strani unicorni’, i viaggiatori inglesi non ricondussero l’ignoto – ornitorinco – al già noto – potevano chiamarlo anatra maggiore – ma andarono alla ricerca della verità. Ciò dipende, sostiene Eco, dal diverso contesto culturale. L’Europa post medievale era disposta ad accettare classificazioni quasi magiche, a differenza dell’Europa illuminista. Questo esempio fa sorgere la domanda sulla natura della conoscenza, che è il centro del ragionamento peirciano. Peirce sosteneva che la conoscenza non procede né per induzione né per deduzione, se non in rari casi, ma fa uso larghissimo dell’abduzione, che è “qualunque ragionamento che faccia parte di una vasta classe che ha per tipo l’adozione provvisoria di un’ipotesi esplicativa” (Peirce, Semiologia, Einaudi, p. 235). Si fa uso dell’abduzione quando i dati dell’esperienza scavalcano le categorie in nostro possesso e ci impegnano comunque per una produzione di senso.
L’abduzione permette di superare il problema dei due tradizionali metodi usati per spiegare la conoscenza, supponendo un reale che deve entrare all’interno di un’ipotesi esplicativa. In un certo senso quindi come vuole il nominalismo il reale non è più il fondamento della conoscenza, perché scopo del soggetto (pragmatismo) diviene quello di raggiungere una forma di equilibrio. Rampi fa dire a Eco, forzando la sua posizione mi pare, che “appena si raggiunge una credenza stabile infatti, noi siamo interamente soddisfatti, che la credenza sia vera oppure falsa” (p. 57).
Questa è una forzatura retorica, perché da un lato Eco, come Kant e quindi Peice, crede nell’esistenza di un fondamento percettivo minimo della conoscenza, e quindi quelle che sono le basi della conoscenza non sono negoziabili; dall’altro, Peirce sosteneva che “non vi è cosa che sia in se stessa nel senso di non essere relativa alla mente, sebbene le cose che sono relative alla mente senza dubbio esistono anche la di là di questa relazione” (Semiotica, p. 81). Questa ‘esistenza al di là’ la potremmo anche chiamare causa fisica.
Inoltre, la soddisfazione che ricaviamo da una credenza e la sua natura vera o falsa non sono indipendenti, dato che solo la verità – ove la verità è il rispecchiamento della realtà – dà equilibrio. E’ però vero che le credenze hanno un fondamento sociale. Diciamo allora, d’accordo con Eco, che là dove l’oggetto è più difficile da definire, per limiti intrinseci al soggetto in relazione all’oggetto perché nulla esiste in sé, ci può essere equilibrio con una credenza falsa. Ma, ancora, dato che è in corso un processo storico di avvicinamento all’in sé dell’oggetto – che paradossalmente porta alla perdita di realtà dello stesso, come dimostra il recente dibattito sul relativismo – è sempre più difficile accontentarsi di una credenza falsa. Ma è anche più difficile raggiungere una credenza vera, il che apre la strada al nichilismo.
Si può concludere questa breve introduzione al libro di Rampi dicendo che “la verità è, dunque, in ogni caso un concetto culturale un’espressione che ha senso all’interno di un contesto linguistico culturale dato, tanto più esteso o ristretto a seconda del livello di complessità e precisione con cui si vuole rappresentare un determinato oggetto” (p. 53). Il punto dolente è, mi pare, che il contesto culturale dominante stia spingendo verso accordi pragmatici, utilitaristici piuttosto che pragmaticistici, gnoseologici. E’ sempre minore l’interesse a rappresentare con precisione un oggetto ampio a piacere. E quindi la verità sta sempre più sfumando nella burla, perché il segno rimanda a un segno che rimanda a un altro segno che rimanda ………………….
Il segno della ragione genera mostri?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *