Recensione: Joyce Carol Oates, Ho fatto la spia

Joyce Carol Oates
HO FATTO LA SPIA
Edizioni La nave di teseo, pp. 489, € 20
Traduzione di Carlo Prosperi

Con il suo ennesimo romanzo tradotto in Italia, Joyce Carol Oates si conferma come una delle migliori scrittrici viventi; e, come molti dei migliori, ribadisce concetti già più volte espressi nei suoi romanzi. Il tema che torna ossessivamente in molte delle sue opere è la descrizione della gabbia che è costituita dalla famiglia; ogni tipo di famiglia, non uno specifico. Sono tanto disfunzionali le famiglie ridotte quanto quelle allargate, quelle con il patriarca e quelle con madre single. In questo caso, la colpevole è la famiglia Kerrigan, una famiglia vecchio stampo, di irlandesi doc. La protagonista è la piccola Violet Rue, la cocca di papà. Ha quattro fratelli, due sorelle e una madre assente. I maschi sono sul limite tra l’adolescenza e l’età adulta, un periodo molto complesso, in cui è frequente commettere atti di cui poi ci si pente; se li si compie, è meglio che non ci siano testimoni. E invece la piccola vede qualcosa che non dovrebbe vedere.
Da lì inizia la trasformazione da cocca di papà a paria, a persona che deve costantemente fuggire con il timore di una punizione incombente sulla testa, con la consapevolezza di essersi trasformata per i propri familiari, le persone a cui tiene di più, in qualcosa di esecrabile, di ripugnante: qualcosa da eliminare, anche a colpi di bastone, come un topo che cerchi di fuggire e che non può far altro, perché non può cessare d’essere un topo. È la sua natura. My life as a rat.

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