Recensione: Vanni Codeluppi, Come la pandemia ci ha cambiato

Vanni Codeluppi
COME LA PANDEMIA CI HA CAMBIATO
Edizioni Carocci, pp. 97, € 10

Mea culpa. Questo libro era arrivato in libreria la prima estate della pandemia e ho avuto modo di leggerlo solo ora. L’autore mi era già noto per l’interessante saggio su La vetrinizzazione sociale, uscito parecchi anni fa e nel quale venivano in parte anticipate le tematiche che l’emergenza Covid ha portato in luce. Ma andiamo con ordine. Partirò dalla fine a commentarlo, per mettere in evidenza come le conclusioni del nostro sociologo possano ritenersi ancora valide, anche forse a maggior ragione, a oltre un anno trascorso dalla stesura del libro. Dice infatti il nostro a pagina 91 che «una delle conseguenze della pandemia di Covid-19 possa essere un ulteriore incremento sul piano della distribuzione della ricchezza.» I dati in arrivo da tutto il mondo non fanno che confermare questa previsione. Il mondo si sta dividendo in due. I ricchi, dotati di maggiori possibilità nel raggiungere i propri scopi, si ricavano nel caos generale delle area di sicurezza in cui perseguire i propri obiettivi, lasciando ai poveri il resto del mondo, in cui sguazzare in una generale vuotezza di senso. In ciò sono sicuramente aiutati dai mezzi di informazione, più pervasivi rispetto ai tempi passati, che inducono nelle masse paure spesso ingiustificate e irrazionali: «… i media però devono essere considerati responsabili di quella percezione di insicurezza e vulnerabilità che oggi viene frequentemente avvertita. Soprattutto perché producono un effetto di drammatizzazione e intensificazioni di tutto quello che presentano» (p. 22). A questo proposito Codeluppi parla di un dato poco noto ma che dà da pensare. Nonostante tutta l’attenzione tributata alle morti violente nel nostro paese, i dati ci dicono che dal ’90 al 2018 queste morti sono passate da un totale superiore alle 1900 vittime annue a poco più di 300; il dato empirico non è però entrato nella percezione soggettiva. La convinzione generale è quella che si viva in un mondo molto più rischioso di un tempo: «…l’omicidio è un fenomeno sempre meno presente nella realtà sociale, mentre è fortemente riscontrabile in quella di tipo mediatico» (p. 23). La graduale sostituzione della realtà oggettiva con quella rappresentata, già in atto negli anni passati, è stata probabilmente incentivata dalla pandemia. Il problema non percepito di questa realtà di secondo grado è che essa non è passibile di falsificazione, ingenerando quindi in chi ne è vittima un atteggiamento profondamente antiscientifico. Questo fa si che ogni comunicazione è equivalente, e la nozione stessa di verità scompare. Ci sono i punti di vista: «Tutto quello che era intermedio viene ora sostituito da uno spazio che offre una totale libertà di espressione a ogni soggetto e ciò finisce per destabilizzare qualunque struttura gerarchica esistente nella società» (p. 51). In assenza di una struttura nella quale potersi inserire e dalla quale ricavare un senso, il singolo si muove verso questo senso apparente costituito dal mondo dei social: «L’impressione è che a causa di ciò (la trasformazione sociale indotta dai nuovi mezzi di comunicazione) gli individui si percepiscano sempre più frequentemente non come il frutto di una complessa rete di relazioni sociali, bensì come il risultato solamente di ciò che sono in grado di immettere nel web» (p. 56).
Accanto a queste trasformazioni ‘isolanti’ dovute alla pandemia, molte persone hanno avuto percezioni differenti: «… la sospensione del tempo causata dalla pandemia, in fondo non ha comportato conseguenze di carattere così negativo per gli individui. Al contrario, rallentando bruscamente il tasso di velocità degli abituali flussi temporali, ha determinato maggiori possibilità di sviluppare riflessioni approfondite» (p. 72). Resta il fatto che la possibilità di ‘sviluppare riflessioni approfondite’ è riservata a chi ha condizioni materiali che permettono di avere il tempo e il luogo per farle; in altri termini, anche questa osservazione non fa che ribadire il divario che si è approfondito tra il mondo dei (pochi) ricchi e il mondo dei (molti) poveri.
Poveri che, nel modello di sviluppo affermatosi con la fine della seconda guerra mondiale, erano in effetti una ragione di sviluppo immanente alla società, sia per il loro legittimo desiderio di consumare sia per l’implicita conflittualità nei confronti della classe più abbiente. Questa impostazione è ora in crisi: «La pandemia ha provocato però un ulteriore impoverimento della fascia media della popolazione, che probabilmente metterà in crisi la tenuta del modello di consumo low cost» (p. 79).
Torniamo quindi all’inizio quando parlavo della distribuzione della ricchezza, notando come già più di un anno fa Codeluppi notava la tendenza, abituale tra i ricchi, a farsi da parte quando la situazione si fa difficile per lasciare spazio allo stato con il suo ruolo di riequilibratore (parziale) dell’ingiustizia sociale, salvo poi rifarsi sotto per ricominciare ad accaparrare ricchezze incuranti delle conseguenze sui meno abbienti quando la situazione appare in miglioramento.
In questo, purtroppo, la pandemia non li ha cambiati.

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