Recensione: Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale

Vanni Codeluppi
LA VETRINIZZAZIONE SOCIALE
Edizioni Bollati Boringhieri, pp. 95, € 11

Si era sempre sentito corroborato dalla stabilità mai dalla stasi
Philip Roth, Everyman

Vetrinizzare è il verbo con il quale la sociologia indica la tendenza, affermatasi con gli anni, di esporre senza pudore il proprio privato in pubblico, annullando così la distinzione tra queste due sfere, tanto importante per garantire il buon funzionamento della società. Il libro di Codeluppi, oltre a dare succinti riferimenti teorici per comprendere il fenomeno, offre un numeroso repertorio di situazioni in cui la gente ‘vetrinizza’ la propria vita. Ma andiamo con ordine.
Quando dico affermatasi con gli anni, intendo un periodo molto lungo, propriamente il periodo richiesto per l’emersione dell’individuo. Questa fase storica inizia con la fine del medioevo e si prolunga fino alla fine della seconda guerra mondiale. A questo punto l’individuo, sganciato da un substrato di supporto, emerge solo sul palcoscenico della rappresentazione sociale e si trova costretto a dotare di senso individuale la propria vita: «Un tempo mettersi in mostra era segno di rozzezza, ma oggi i media, esponendo pubblicamente ciò che prima stazionava nel retroscena, hanno avvicinato alle persone comuni i corpi dei personaggi importanti, contribuendo a desacralizzarli» (p. 18). Lo stesso uomo comune, per riconoscere un senso alla propria esperienza, ha bisogno di metterla in mostra, di esporla alla valutazione – non al giudizio, si badi bene: nella società postmoderna nessuno giudica, ciascuno osserva – di altre persone comuni.
Giudichiamo, noi, l’effetto del porre in vetrina quelle esperienze che una volta nessuno si sarebbe sognato di pubblicizzare. Il corpo modificato è uno dei casi più evidenti della vetrinizzazione. Ormai ogni parte del corpo può essere modificata e la modificazione serve ad inseguire un ideale che, in quanto tale, non ha nessuna esistenza reale. È quindi logica la frustrazione che ne consegue; ma, a dispetto di qualunque frustrazione futura, l’uomo fluido della società postmoderna, cerca attraverso questo adeguamento dell’esteriorità di assumere un posto stabile nella società. Il problema è che la società non è più in grado di garantire alcuna stabilità, poiché essa stessa varia costantemente gli ideali che ha sviluppato. Diventa quindi necessario, per chi voglia stare al passo con le mode, i flussi di modelli adeguati di comportamento che la società sviluppa, assumere una costante disponibilità al cambiamento come stato normale dell’essere. La capacità di eccitarsi, di rispondere agli stimoli che provengono dall’esterno, diviene il marchio del ‘portatore sano’ del corpo-flusso: «Ciò a cui assistiamo, dunque, è un processo di progressiva sostituzione del piacere specifico con una condizione di eccitazione generalizzata che sembra essere senza limiti» (p. 44).
Per garantire questa eccitazione generalizzata occorre che la vita di tutti sia costantemente visibile: vetrinizzata. Questo risultato è stato ottenuto grazie ad una progressiva confusione tra pubblico e privato, garantita dal costante aumento della comunicazione: «La possibilità di comunicare in qualunque luogo diffonde il privato, che nel diffondersi perde la sua identità e tende perciò ad annullarsi nel pubblico” (p. 21). Ciò determina una perdita di controllo, una perdita di sicurezza su quello che è il senso dell’esistenza. A questo fatto si sommi il cambiamento di significato che ha investito le città con l’avvento della società dei consumi.
Da luogo di rifugio, di sicurezza, in cui sono garantite agli abitanti una serie di attività routinarie e piacevoli, la città è diventata luogo di transito: «Negli ultimi anni è apparso sempre più evidente l’avvio di un processo di declino e di crescente entropia della città storica tradizionale. Secondo Alain Bourdin è in atto un passaggio dalla città come ordine alla città come offerta» (p.75).
Anche l’ultimo baluardo del privato, la morte, è stato vetrinizzato. Si va quindi dall’offerta di trasformare le ceneri dei defunti in diamanti alle scene di delirio panico in occasione delle esequie di Woytila. Tutti esempi che confermano le parole di Baudrillard: «…tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte» (p. 83).
In conclusione, portare tutto all’esterno, vetrinizzare l’esistente, serve forse a renderlo più controllabile e quindi più trasformabile, ovvero più fluido. Non so, per parte mia, quanto questo bisogno di trasformabilità, che confonde la stabilità con la stasi, sia un bisogno umano.

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