Recensione: M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi

Miguel Benasayag e Gérard Schmit
L’EPOCA DELLE PASSIONI TRISTI
Edizioni Feltrinelli, pp. 129, € 7,50
Traduzione di Eleonora Missana

I due autori del saggio in questione si occupano di clinica con minori e adolescenti, soggetti che, secondo loro, sono vittime di quelle che Spinoza chiamava, appunto, passioni tristi. Le passioni tristi contraddistinguono le nuove generazioni. Sono passioni generate dalla perdita di fiducia nel futuro, dal sentirsi impotenti nei suoi confronti, dalla percezione di vivere in un tutto che si sta sgretolando.
Il libro non è un manuale terapeutico, anzi. È più un libro di filosofia, di quell’unica filosofia reale che è quella che nasce dall’esperienza e all’esperienza ritorna.
I nostri sostengono che una possibile via di cura per i problemi delle persone che si rivolgono al loro centro è la riscoperta della persona attraverso la rinuncia dell’individuo. Ovvero sostengono la necessità di una terapia del legame. Spiego.
La società attuale pone il singolo in una realtà più economica che umana: tu esisti per quanto possiedi/consumi. Ciò comporta che le categorie di valore che ciascuno usa per valutarsi non provengono da un’onesta valutazione di sé, ma da quanto il sé sociale si conforma ad una norma. Per rientrare nella norma occorre allora che parti di se stessi siano negate, rimosse. Il rimosso ha una decisa tendenza a tornare, però. L’idea di uomo che la società avvalora è quella un individuo autonomo, non definito dai suoi legami, in grado di muoversi a prescindere dagli altri e che prende decisioni solo in funzione del proprio interesse. Non tutti ce la fanno.
Non tutti cioè riescono a vivere in equilibrio sapendo di dovere rinunciare a priori ad una parte del proprio io. Questi soggetti deboli sono quelli di cui si occupa la struttura clinica degli autori. Anche l’etichetta di ‘deboli’ è comunque scorretta, perché i loro sintomi fanno parte della persona e come tali vanno accettati. Solo l’individuo, il solitario, non ha sintomi. Uno che in base alla valutazione del DSM non andrebbe mai in manicomio.
Il terapeuta, ma anche il genitore a ben vedere, non deve applicare uno schema riduttivo, che semplifica il reale nel trattare con il paziente. Occorre capire che il processo terapeutico è anche un percorso educativo, in cui la persona deve imparare sia a rispettare la realtà sia a fare accettare all’esterno la propria realtà.
Questo è però difficile in un contesto civile in cui tutto ciò che non rientra negli schemi commerciali viene escluso. Il giovane che cresce non ha più modelli da acquisire, non è più sottoposto all’autorità, riconosciuta, di un adulto; deve sottostare, invece, all’autoritarismo. In un’epoca di passioni tristi le regole si impongono con la minaccia, non con il desiderio. Il desiderio di imparare, di acquisire una competenza riconosciuta dall’adulto non agisce più, perché l’adulto ha rinunciato alla funzione di modello, vuole solo poter essere come gli altri. La relazione con genitore-bambino diventa simmetrica. Non appena il bambino capisce questa simmetria l’adulto ha perso la possibilità di insegnare qualcosa. Non gli resta allora che la minaccia: se non fai così non potrai….
Il futuro però è diventato sempre più incerto ed anche nebulose minacce su un futuro del genere non sortiscono effetto. L’unico effetto che si fa sentire è l’esclusione dal circolo economico. Il giovane che cresce ha quindi due possibilità: o farsi normalizzare dai valori diffusi, diventare individuo, o scegliere di essere una persona, accettando quella parte di infelicità che essere una soggettività che non si adatta a norme imposte porta con sé. Quelli che non riescono a controllare questa infelicità diventano ‘soggetti problematici’.
Il discorso del libro ha molta importanza da un punto di vista terapeutico (i soggetti ‘deboli’) ma non se ne può trascurare la portata filosofica e sociologica generale. L’individuo che sceglie di vincere il destino violenta il mondo e la natura, perché il destino non è altro che l’espressione di ciò che esiste prima di ogni determinazione. Solo assumendo il proprio destino, la propria sovradeterminazione, il proprio essere liberi ma nei limiti, sarà possibile riscoprire quelle parti di sé che, rimosse, ci fanno vivere nell’epoca delle passioni tristi. E scoprire passioni nuove.

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