Recensione: Marco D’Eramo, Dominio

Marco D’Eramo
DOMINIO. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi
Edizioni Feltrinelli, pp. 256, € 19

Marco D’Eramo, giornalista del manifesto e persona di lunga esperienza nella sinistra italiana, ci offre un’interessante lettura di un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti ma a cui nessuno sta dando voce: la vittoria della classe padronale sulle rivendicazioni della classe lavoratrice, intesa questa in senso molto ampio. D’Eramo sostiene, con parecchi elementi a favore di questa tesi, che la destra conservatrice ha risposto ai moti libertari che hanno percorso gli anni ‘60 con una precisa strategia ideologica. Ha, in altre parole, finanziato la diffusione di un’ideologia antagonista rispetto a quella della sinistra e questa ideologia ha vinto: il nome complessivo di questa ideologia è Law and Economics, ovvero solo attraverso il rispetto delle leggi si possono avere successi economici. Questa forma mentis la vediamo all’opera in modo eclatante nella realtà americana, la cui opinione pubblica è trascinata in modo inconsapevole a sposare cause che vanno contro i propri interessi; l’Europa del resto non è certo rimasta indietro, basti pensare ai successi elettorali di Berlusconi dalla fine degli anni ‘90 e di Orban nell’attuale Ungheria.
Tutto il movimento ideologico, che è stato finanziato occultamente dalle fondazioni americane (D’Eramo cita una miriade di nomi illustri, che figurano come magnati di interventi umanitari ma che, in realtà, non fanno altro che elargire le briciole), ha tenuto nascosti i propri presupposti, tanto che il popolo ritiene, a torto, che lo stato delle cose sia naturale, che la lotta di tutti contro tutti sia l’unico destino possibile: “Una manifestazione di questa illeggibilità (dei fondamenti) è la crescente opposizione popolare alle pensioni, alla sicurezza del lavoro, alle ferie e alle altre conquiste duramente ottenute nel settore del lavoro pubblico negli Stati Uniti” (p. 90). Una struttura ideologica che conduce i meno abbienti a ritenere giuste misure che tolgono diritti ad altri di poco più abbienti, ha evidentemente avuto partita vinta nella lotta contro la sinistra che vuole estendere universalmente tali diritti.
Una volta formata un’ideologia che giustifica la disparità sociale (a proposito dei nomi illustri citati, ecco cosa troviamo a pagina 89: “Per Carnagie e i suoi epigoni la diseguaglianza è il principale beneficio apportato dalla civiltà”), in pochi passi i dominanti modificano le regole del fisco e della giustizia, a proprio vantaggio, riducono gli stanziamenti per l’istruzione e legano il popolo all’andamento generale tramite il debito; a causa della struttura ideologia un uomo indebitato non troverà il modo di liberarsi dal debito, se non sacrificando la propria vita a chi lo domina; e sempre nell’ottica dell’ideologia dominante, una liberazione è possibile solo attraverso la cultura. Togliere i finanziamenti alla scuola pubblica è funzionale al mantenimento dello status quo.
Il libro si lascia leggere in maniera molto lineare. Unendo la propria formazione di fisico con i successivi studi di filosofia ed economia, D’Eramo cerca di mostrare dove rischiamo di finire se non ci ribelleremo a quest’andazzo; e qui sta, a mio parere, il punto debole dell’argomentazione. Tutti i dati riportati vanno in un’unica direzione, il quadro d’insieme che ne esce è convincente, ma l’unica cosa che manca è un’ideologia alternativa. L’unico pensatore cui ci si possa rivolgere per uscire da questo stato di cose è, a detta dell’autore, Machiavelli, che nella sua opera sostiene che “le buone leggi nascono dai tumulti” (p. 205). Definendo non convincenti le argomentazioni di Piketty, che nel suo ultimo libro sostiene la necessità di una svolta politica verso una maggiore inclusività e parità sociale, D’Eramo pare richiedere un ritorno ad uno scontro di classe più deciso, meno affidato alle parole e più ai fatti, i tumulti appunto. Ma se la vittoria dei neo conservatori, radicalmente diversa dalle vittorie dei conservatori di fine ‘800 / inizio ‘900 – perché l’ideologia che giustificava tale vittoria aveva al suo centro una figura d’uomo ancora rispondente a principi non esclusivamente economici –, è una vittoria prima ideologica e poi nei fatti, dove andremo a finire se risponderemo con fatti privi di ideologia? Se i fatti, anche distruttivi nei confronti del sistema capitalistico, non si richiameranno ad una ideologia forte, che li doti di un senso che scavalchi l’immediato, tali fatti verranno derubricati in eccezioni inaccettabili e come tali da reprimere. I fondamenti resteranno illeggibili finché le classi popolari non si doteranno di una struttura teorica atta a leggerli e credo sia più probabile arrivarci con l’applicazione di nuove leggi con non con la semplice violazione delle vecchie.

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