Recensione: Thomas Piketty, Capitale e ideologia

Thomas Piketty
CAPITALE E IDEOLOGIA
Edizioni La nave di Teseo, pp. 1176, € 25
traduzione Lorenzo Matteoli e Andrea Terranova

La lettura, difficoltosa e impegnativa, dei libri di Piketty è ripagata ampiamente dall’emozione che si ricava leggendo quello che è senza ombra di dubbio un illuminista convinto in un’epoca che sta cercando di seppellire il progetto politico di uguaglianza portato avanti dall’illuminismo. Dopo il colossale Il capitale nel XXI secolo, ove in sintesi analizzava il modo in cui il capitalismo aveva reagito ai moti di opposizione partiti con la fine della prima guerra mondiale e protrattisi fino a fine anni ‘70, in questo altrettanto colossale lavoro cerca di capire e fare capire al paziente lettore come la reazione vittoriosa del capitalismo si basi sull’accettazione di un’ideologia: “Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze: è necessario trovarne le ragioni, perché in caso contrario è tutto l’edificio civile e politico che rischia di crollare” (p. 12).
L’autore dedica la prima parte del libro all’analisi storica di come le disuguaglianze si sono manifestate e sono andate via via riducendosi. Ci introduce così al concetto di società terziaria, ovvero di una società divisa in tre blocchi sociali, ciascuno occupato alla gestione di una parte specifica del tutto; l’idea che ha dominato il pianeta per millenni è che tale suddivisione fosse pienamente legittima e che i trasgressori a tale legittimità andassero severamente sanzionati: “ La particolarità delle società terziarie è in sintesi il loro modo specifico di giustificare la disuguaglianza: ogni gruppo sociale svolge una funzione indispensabile per gli altri gruppi e fornisce a ciascuno dei servizi vitali, così come fanno le diverse parti di uno stesso corpo” (p.82). Questa tripartizione è riscontrabile in tutta la storia dell’uomo, fino alla rivoluzione francese. “…l’esperienza della rivoluzione francese illustra una lezione più generale (…): il mutamento storico di paradigma deriva dall’interazione di eventi politici di breve termine e istanze ideologiche di più lungo termine” (p. 141). Queste istanze di più lungo termine sono quelle legate all’emergenza dell’individuo.
Le parti II e III del libro analizzano storicamente e geograficamente le diverse modalità che il mondo moderno ha adottato per affrontare questa grande trasformazione; molto interessanti sono le analisi sul periodo del colonialismo inglese in India (cfr. p. 394 sgg). L’ analisi storica mostra come eventi, che hanno poi generato effetti che tutti oggi possiamo verificare, siano risultati specifici di decisioni prese in particolari momenti. A questi punti di biforcazione l’umanità avrebbe potuto prendere strade diverse, e questi elementi devono servire allo studioso, e al lettore, da istruzione sulla strada da prendere in futuro: meglio, sulle possibilità del futuro.
Al di là del discorso storico, l’interesse peculiare del libro si mostra nell’analisi delle prospettive, soprattutto per l’Europa. Quello che Piketty propone è un progetto sociale complessivo, basato sulla constatazione che “L’assenza di una qualsiasi imposta comunitaria e di un vero e proprio bilancio comune fa si che l’Unione Europea assomigli di fatto più a un’unione commerciale o a un’organizzazione internazionale che non a un governo federale” (p. 1011).
L’idea forte che sta alla base di questa constatazione è che la storia dimostra che sono gli stati che sono riusciti nei secoli a sviluppare un efficiente sistema di tassazione e ridistribuzione quelli dove si vive meglio. Si parte allora dal ‘500, con un mondo diviso in tre grandi blocchi relativamente stabili. In Europa iniziò allora uno stato di guerra perenne tra tutti che durò due secoli e che incentivò un’organizzazione capillare del prelievo fiscale per finanziare gli eserciti. Si passò così da un prelievo praticamente inesistente ad uno in grado di pagare eserciti nazionali che in breve superarono per dimensioni quelli dei più grandi imperi ottomano e cinese e che permisero all’Europa di estendere il proprio dominio sul mondo per oltre tre secoli. Al prelievo solo con scopi militari si associò, dopo la rivoluzione francese, un prelievo per garantire i servizi ai cittadini. Si arriva così alle democrazie moderne, ove il prelievo fiscale va dal 30 al 50% del reddito nazionale.
E’ quindi solo attraverso una politica fiscale giusta ed equilibrata che uno stato può diventare, e mantenere, la condizione definibile modernità, con i diritti fondamentali garantiti a tutti i cittadini; questa idea ha tentato, con discreto successo, di affermarsi fino alla fine degli anni ‘70 (cfr. Il capitale nel XXI secolo). Ma qui entra una diversa narrazione, la narrazione nativista, che sostiene che il diritto acquisito dal singolo non è alienabile, soprattutto in rapporto a chi proviene dall’esterno. E invece, sostiene Piketty, proprio questo punto è da ribaltare: “E’ il ricorso a una miscela di proprietà pubblica, proprietà sociale e proprietà temporanea la scelta che consente di superare davvero, e in modo permanente, il capitalismo (…) In sostanza, il problema stesso del superamento della proprietà privata è stato quasi del tutto abbandonato dai socialdemocratici” (pp. 564-565). La proprietà non va intesa come un diritto individuale, ma come un rapporto sociale, che come tale deve sottostare a regole che vadano nel senso del bene comune. Per questo “Il sistema fiscale di una società giusta si dovrebbe basare su tre grandi imposte progressive: un’imposta progressiva annuale sulla proprietà, un’imposta progressiva sulle successioni e un’imposta progressiva sui redditi” (p. 1108).
Queste tre imposte, che ove applicate consentirebbero di ridurre il divario economico che esiste oggi tra i ricchi e i poveri, si scontrano però pesantemente con l’ideologia proprietarista, che ha sostituito nell’ideologia comune l’idea stessa di un’alternativa. E, dato che questa posizione accomuna destra e sinistra, assistiamo all’assurdità di ceti popolari che danno il proprio voto a sostegno di forze il cui programma politico è, nei fatti, rivolto al mantenimento dei benefici di cui in maniera sempre maggiore godono i proprietari. L’abbandono della progressività fiscale – per cui chi guadagna dieci paga uno ma chi guadagna cento paga novanta – a vantaggio della proporzionalità o di un’imposta sui consumi (IVA) accomuna i programmi politici delle destre e delle sinistre di tutto il mondo e giustifica l’abbandono dei partiti di sinistra da parte dei ceti popolari e la loro trasformazione nei partiti dei laureati: “la sinistra intellettuale benestante che si è riconosciuta nel partito democratico negli anni 1990-2010 aveva diversi interessi in comune con la destra mercantile salita al potere con Reagan e Bush” (p. 947). E il discorso non vale solo per gli Stati Uniti.
Un’attenzione particolare va rivolta al concetto di proprietà come bene transitorio. Dato che è l’ideologia che permette la messa in atto di particolari politiche che a loro volta garantiscono determinati comportamenti, occorre una lenta ma costante avanzata di una nuova forma ideologica che, senza negare la libertà dell’individuo – è molto interessante l’opposizione documentata storicamente tra la rivoluzione francese e la rivoluzione americana e sulle diverse società che si sono originate da questi due eventi, cfr. p. (547 sgg.) – fornisca regole che tutelino l’individuo che non parte da posizioni di forza. I dati dimostrano che lo sviluppo economico sta riportando il mondo ad una condizione di divisione sociale estrema, con i poveri esclusi dai diritti che, teoricamente, spetterebbero a tutti: “L’inadeguata ripartizione della ricchezza nazionale nella società è un problema del XXI secolo e potrebbe concorrere a logorare la fiducia che la classe media e operaia nutrono nel sistema economico sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri e emergenti” (p. 786). Questo logoramento è ciò che permette l’emergere dei partiti cosiddetti ‘populisti’ che, con le loro soluzioni semplicistiche – flat tax, tanto per dirne una – affascinano chi vive scoraggiato la situazione esistente: “I regimi della disuguaglianza in vigore nel XIX secolo e fino al 1914 si basavano sul rifiuto della tassazione progressiva e su entrate fiscali relativamente contenute” (p. 522).
Piketty entra nel merito, fornendo dati e spunti programmatici che permettono di leggere in modo più informato quanto sta succedendo nel governo europeo. Benché questi dati siano parziali – “A parte la scelta degli indicatori, il problema più importante per la misurazione delle disuguaglianze è quello della disponibilità delle fonti” (p. 755) – vanno in una direzione ben precisa, attestano cioè una volontà, neanche tanto occulta, di nascondere le fonti attraverso cui i ricchi continuano a prosperare: “Può sembrare paradossale che l’era attuale, spesso descritta come l’era dell’informazione e dei big data, sia così carente di statistiche pubbliche sulla disuguaglianza. Eppure, è questa la realtà (…) Non si tratta di una difficoltà tecnica ma di unna precisa scelta politica e ideologica, che cercheremo di comprendere meglio” (pp. 766-777).
Attraverso leggi specifiche e mirate i partiti di centro sinistra dovranno cercare di riguadagnare la fiducia dei ceti popolari, sperando che i ceti più abbienti, dai quali proviene gran parte dei voti attuali della sinistra, non si sentano minacciati da scelte che inevitabilmente andranno ad intaccare i loro interessi: “Ma per arrivare a questo (una politica fiscale comune, che riduca da disparità sociale all’interno dei singoli paesi), bisogna partire dal principio che la fiducia dovrà essere costruita in modo graduale, tante sono le difficoltà poste dai numerosi ostacoli nazionalisti che ingombrano il continente” (p. 1022). Il vero problema non è quindi quello attorno a cui si accapigliano molti politici circa la difesa dei diritti nazionali, ma la stessa definizione del concetto di nazione e di cittadinanza. Se l’Europa vuole essere uno stato, al cui interno vivono in pace altri stati, occorre cambiare la narrazione, occorre cambiare il modo in cui si parla di Europa e di cittadini europei. Se l’Europa vuole diventare un corpo organico, occorre abbandonare la difesa dei confini nazionali e cercare la difesa dei diritti individuali, tenendo presente che è individuo ogni essere umano, a prescindere da dove sia nato, purché rispetti i principi che da oltre tre secoli formano la nostra ideologia.
E lottare perché questa ideologia, l’illuminismo, non si faccia sconfiggere dal capitale, che è un’altra ideologia, non una condizione naturale della società umana.

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