Recensione: Emanuela Canepa, L’animale femmina

Emanuela Canepa
L’ANIMALE FEMMINA
Edizioni Einaudi, pp. 259, € 17,50

Se sulla fascetta del libro c’è scritto che il libro della fascetta ha vinto il premio Calvino, tu ti aspetti, come minimo, un po’ di metaforicità, oppure, un riferimento a fatti storici o al mondo della cultura, e invece Emanuela Canepa ti spiazza e ti offre una storia che non fa riferimento a nessuno di questi ambiti, ed è per questo che la storia risulta un po’ debole, perché non ha nessuno degli elementi di cui sopra, che per me sono la base per rendere interessante un libro, e ci parla invece di una studentessa un po’ indietro con gli esami, Rosita, che fa un lavoretto di quelli di oggi, che nessuno vorrebbe fare, eppure qualcuno li fa perché il sistema deve pur funzionare, e lei è una cassiera a chiamata in un minimarket di Padova, dove studia – studierebbe – medicina, e per i casi della vita, lei che è onesta, aiuta in maniera completamente disinteressata una signora che ha visto per caso sull’autobus e da lì partono i casini, già, perché la signora è alle dipendenze di un vecchio avvocato che coinvolgerà Rosita in una vicenda che rimanda al passato sepolto dell’avvocato.
Il binario del passato è quello più interessante, e su quello la scrittrice avrebbe dovuto compiere un lavoro più approfondito di analisi psicologica e di descrizione delle situazioni, ed in parte ci riesce, ma solo in parte, perché alla fine preferisce privilegiare Rosita, l’animale femmina, un titolo completamente inadatto, e le sue scelte nei confronti delle situazioni che le si presentano, finendo così per offrirci una vicenda poco credibile, visto che le scelte sono tutte in effetti non scelte, cosa che, tendenzialmente, può annoiare il lettore: tutto il contrario di Calvino.

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