Recensione: Eshkol Nevo, Soli e perduti, Neri Pozza

Eshkol Nevo, Soli e perduti

Neri Pozza, pp. 264, euro 17.50

Traduzione Ofra Bannet e Raffaella Scardi

Chi credo che il realismo magico esista solo nella letteratura sudamericana si ricrederà leggendo questo romanzo. I vecchi immigrati ebrei, approdati dall’ex unione sovietica alla terra promessa, troveranno un’inaspettata giovinezza all’interno del Mikveh che il signor Mendelshtorm, newyorkese d’azione ma ebreo per cultura, ha fatto costruire in omaggio alla memoria della moglie defunta. Il modo in cui la troveranno sfiora, appunto, la magiama non è questo il punto. La storia si svolge, oltre che attorno a questo gruppo di immigrati che parlano solo russo, confinati dal sindaco Danino in un quartiere dismesso soprannominato Siberia, attorno all’amore tra Moshe Ben Zuk e la bella Ayelet. Amore giovanile, chiusosi molto male, ma che forse la magia del Mikveh riuscirà a ricreare.

E’ un romanzo intriso di cultura ebraica. I protagonisti sono in bilico tra la passione e il sentimento religioso; attratti dalla forza della tradizione, non sanno cedere alla forza della passione e in questo si ritrovano, appunto, soli e perduti. L’unico che si salva è lo sfortunato Naim. Muratore, arabo, incaricato da Moshe Ben Zuk di edificare il Mikveh, incorrerà nell’arbitrarietà dell’esercito ebraico. Ma siamo nel realismo magico, e quindi anche per lui nell’amore ci sarà una soluzione.

Accettazione della – triste – situazione o realismo magico: non c’è più una soluzione politica?

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