Recensione: Yuval Noah Harari, Sapiens, da animali a dei

Yuval Noah Harari
SAPIENS, DA ANIMALI A DEI
Edizioni Bompiani, € 17
Traduzione di Giuseppe Bernardi

Preparatevi a leggere una storia appassionante, la storia dell’umanità. Con uno stile discorsivo chiaro e mai pedante, Harari racconta tanti episodi e fatti scientifici che, messi in fila, ci conducono dalle savane ove vivevano i gruppi dei primi cacciatori-raccoglitori (70000 anni fa), ai primi nuclei abitati sedentari (12000 anni fa) per giungere al nostro mondo globale. Attraverso questa storia il nostro autore cerca di illuminare il lettore su una domanda ancora irrisolta: quanto dello sviluppo è dovuto alla base biologica e quanto alla sovrastruttura culturale? Ambo le posizioni hanno punti pro e contro. Leggere questo libro vi fornirà notevoli spunti di riflessione sulla questione.
La storia dell’uomo però parte prima di 70000 anni fa. 13800 anni or sono nasce la realtà che conosciamo; dopo il Big Bang e la formazione del nostro pianeta, iniziano a lavorare i processi chimici. Compare la vita che, in base ai meccanismi della selezione naturale, evolve in generi e specie fino a 6 milini di anni fa, quando è collocato il bivio che separò il genere Homo e gli scimpanzé: “Ci piaccia o no, siamo membri di una famiglia vasta e particolarmente rumorosa, quella delle grandi scimmie. I nostri parenti più prossimi comprendono gli scimpanzé, i gorilla e gli orangutan. I più vicini sono gli scimpanzé. Appena 6 milioni di anni fa, un’unica scimmia femmina ebbe due figlie. Una fu la progenitrice di tutti gli scimpanzé, l’altra la nostra nonnna (p. 13).” Dopo questo evento, gli esseri umani evolvono in Africa, da cui piano piano passano a occupare varie aree dell’Eurasia dando luogo a specie umane differenti. L’ultima che si estinse, per motivi ancora in discussione tra gli esperti, è quella dei Neanderthal. 30000 anni fa Sapiens rimase l’unica specie umama sulla terra. A quel punto Sapiens occupava già, oltre all’Eurasia, anche le americhe e l’Oceania. L’arrivo di Sapiens in questi due continenti fu seguito, in tempi nolto accelerati rispetto al normale, da estinzioni di massa della fauna presente in questi continenti: “Un punto da tenere in considerazione circa l’evoluzione umana è la repentinità con cui l’uomo è passato da una posizione intermedia nella scala dei predatori carnovori – l’uomo ha vissuto per milioni di anni cibandosi dei resti che i grandi predatori lasciavano sul terreno – al suo vertice, quando ha sviluppato una tecnologia e una coesione sociale che gli hanno permesso di rubare il posto ai giganti della savana. Questa repentinità non ha dato modo alla restante natura di adattarsi, e questo ha comportato e comporta l’estrema pericolosità dell’uomo per la natura stessa” (p. 22).
“Come mai le rivoluzioni agricole eruppero nel Medio Oriente, in Cina e nell’America Centrale, e non in Australia, in Alaska, in Sudafrica? La ragione è semlice: la maggior parte delle specie vegetali e animali non può essere domesticata” (p. 107). La domesticazione delle specie animali e vegetali è un momento di cruciale importanze nello sviluppo di Homo sapiens. Attraverso questo processo sono diventate velocemente disponibili molte più risorse alimentari che non limitandosi a un’esistenza da cacciatori-raccoglitori. A questo si aggiunge la capacità che Sapiens inizia a sviluppare di mettere in comune informazioni. Attraverso una trasformazione culturale Sapiens diede una svolta unica e irripetibile allo sviluppo della vita sul pianeta terra. Ma ben più importante è che le informazioni che mette in comune non sono solo quelle reali. Sapiens, attraverso il linguaggio, è capace di immaginare realtà ancora assenti: “…la caratteristica davvero unica del nostro linguaggio non è la capacità di trasmettere informazioni su uomini e leoni. E’ piuttosto la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto” (p. 36). “La rivoluzione cognitiva (70000 anni fa) segna un punto di svolta: quello in cui la storia dichiarò la propria indipendenza dalla biologia” (p. 52).
“La coltivazione del frumento permise di disporre di più cibo per unità di territorio, e quindi consentì a Homo Sapiens di noltiplicarsi in misura esponenziale. (…). Sta qui l’essenza della rivoluzione agricola: la capacità di mantenere in vita più gente in condizioni peggiori” (p. 112).
“Mentre lo spazio agricolo diminui, il tempo agricolo si espanse. Abitualmente, i cacciatori-raccoglitori non sprecavano troppo tempo per pensare alla settimana successiva o al mese venturo. Gli agricoltori invece viaggiavano con l’immagnazione spingendosi fino a anni e decenni nel futuro” (p. 133). Questa dilatazione nel futuro si concretizza con la formazione dei primi regni degli uomini; i regni portano con sé altre invenzioni fondamentali: il denaro e la religione.
Per convivere e progredire, occorre che le attività prima svolte all’interno del singolo nucleo, siano svolte da più gruppi specifici, in modo da consentire la specializzazione. Per scambiare tra i vari gruppi questi prodotti nasce una misura comune e unica, il denaro. A garantire il valore del denaro è all’inizio il suo valore concreto: le prime ‘monete’ sono pezzi d’argento di peso definito. Qusti processi evolutivi si basano evidentemente su di una specificità unica di Sapiens. Noi siamo in grado di creare un ordine fittizio e attenerci a esso come se fosse reale, come se tale ordine fosse l’emanzione diretta di una realtà precedente e immutabile: nascono le religioni. Osserviamo brevemente che le religioni con gli dei sono l’evoluzione dell’animismo dei cacciatori-raccoglitori. Vivendo immersi nella natura indomita ogni oggetto e ogni animale veniva trattato come se in esso vi fosse uno spirito che lo muoveva e lo dotava di intenzioni; a essi bisognava rivolgersi con riti appositi per ottenerne il benvolere. Il passaggio allo stadio sedentario ha creato anche una frattura con questa religione più immediata. Creato un proprio ordine artificiale di esistenza l’uomo chiama in causa entità superiori che l’aiutino a spiegare quanto ancora non capisce e che lo difendano da ciò che gli è estraneo: “…una ferrea regola della storia dice che ogni gerarchia immaginata rinnega le proprie origini fittizie e rivendica per sé uno status naturale e inevitabile” (p. 174).
La realtà culturale diventa così l’ambito in cui l’umanità inizia un diverso tipo di sviluppo, più veloce e aggressivo, più distruttivo e astratto, ma sicuramente anche più ricco di possibilità. Nella realtà culturale dell’uomo ha quasi ovunque dominato una struttura sociale specifica, quella del patriarcato. Anche in questo caso, si scontrano quanti danno a questa caratteristica un fondamento biologico e quanti la vogliono un portato culturale. Harari non prende una chiara posizione, anche se sembra propendere per la natura biologica di questa gerarchia: “Ammesso che il patriarcato afroasiatico fosse derivato da qualche evento casuale, come mai erano patriarcali anche Aztechi e Maya? Assai più probabile è che, sebbene la precisa definizione di uomo e di donna vari culturalmente, esista una ragione biologica universale per la quale quasi tutte le culture valorizzano la mascolinità rispetto alla femminilità. Non sappiamo quale sia questa ragione. Ci sono molte teorie, ma nessuna è convincente” (p. 197).
Sia come sia, la società dell’uomo si struttura. Da piccole comunità stanziali si passa a regni e da qui agli imperi: il primo impero è datato 4250 anni fa. Questo impero originario mette in atto una dinamica che sarà poi ripetuta da tutta la storia: noi siamo quelli che hanno diritto alla vita e al dominio su questa terra, gli altri sono i nemici. La storia dell’umanità, unendo la creazione degli imperi, quella del denaro e le religioni, procede fino a quello che secondo Harari è l’evento fondamentale della storia: “Attorno al 1500 d.C. la storia ha compiuto la propria scelta di maggior portata, cambiando non solo il destino dell’umanità, ma probabilmente anche quello di tutti gli esseri viventi sulla terra. Chiamiamo tale scelta con il nome di Rivoluzione scientifica” (p. 304).
Tanto per avere un’idea di cosa stiamo parlando, ecco due dati che ci fornisce Harari: “Nel 1500 l’umanità consumava energia per circa 13 milardi di miliardi di calorie al giorno. Oggi consumiamo 1500 miliardi di miliardi di calorie al giorno” (p. 307); “Nel 1500 la produzione globale di beni e servizi equivaleva approssimativamente a 250 milardi di dollari; oggi si aggira intorno ai 60 miliardi di miliardi di dollari” (p. 379).
Ciò che ha permesso alla scienza occidentale di assumere il completo controllo del pianeta è un diverso approccio all’ignoranza. L’ignoranza era per il mondo arcaico lo stato naturale dell’uomo e tale stato non andava violato, pena il rischio di scatenare le forze avverse delle divinità, e dei loro rappresentanti terrestri, che avevano ogni interesse a difendere il proprio status. Nel 1492 Cristofero Colombo lanciò la prima sfida all’ignoranza. La scoperta dell’America rappresenta il primo passo dello sviluppo che ci ha condotti dove siamo; “ai cinesi e ai persiani non mancavano invenzioni tecnologiche come le macchine a vapore (che potevano essere copiate liberamente o comprate). Ciò che mancava loro erano valori, miti, apparati giudiziari e strutture sociopolitiche che in Occidente si erano formati e erano maturati nel corso dei secoli, e che non potevano essere copiati e interiorizzati tanto rapidamente” (p. 351). Per la sua tendenza all’espansione, “l’imperialismo europeo non assomiglia a nessuno degli altri progetti imperiali della storia” (p. 353). Prima il regno di Spagna e poi quello inglese e francese hanno investito tempo, denaro e energie per scoprire e entrare in possesso di quanto ancora era loro ignoto. Questo processo passò in breve dal controllo dei sovrani a quello dei mercati; la conquista inglese e olandese delle americhe fu un’impresa totalmente privata, seppure con il supporto politico dei governanti. Oltre a supportare le conquiste, i governi occidentali diedero sostanziale supporto anche alla nascente scienza: “Senza il sostegno degli imperi non è affatto sicuro che la scienza moderna avrebbe potuto proogredire con tale velocità” (p. 377). Oltre al rapporto solido tra governi e scienze, si affermò anche quello tra strutture di credito e imprenditori. Fidando nella certezza dei risultati e nella fiducia verso il futuro, le banche occidentali iniziarono a finanziare le ricerche geografiche: “Il problema, in passato, non era che il credito non si conoscesse. Era che si tendeva a non estendere un forte credito, perché non si aveva fiducia che il futuro potesse essere migliore del presente” (p. 383). Questi primi investitori hanno avuto ragione – nel libro trovate la storia di uno dei primi e tuttora esistenti fondi di risparmio pensionistico, nato per provvedere alle vedove dei pastori anglicani (pp. 318 sgg) che illustra benissimo il nuovo credo culturale che rese vincente l’occidente.
Fino alla metà del XX secolo l’occidente ha spadroneggiato in lungo e in largo, esportando il suo modello a tutto il mondo. Dopo la fine della seconda guerra mondiale hanno fatto sentire le proprie legittime rimostranze i popoli oppressi dalle potenze occidentali per più di due secoli e, da questa lotta, è emerso l’attuale ordine globale – va notato che questo libro è stato scritto prima che La Russia attaccasse l’Ucraina – all’interno del quale s’è fatta largo una nuova forma mentis, una nuova etica, che accomune i popoli: l’etica del consumo. Questa etica incarna la “prima religione nella storia i cui seguaci fanno effettivamente ciò che viene loro chiesto di fare” (p. 434). Il consumismo è una religione cui è facile aderire, dato che rispetta la maggior parte degli istinti: l’accumulazione, l’egoismo e il bisogno di esibirsi. “Prima della rivoluzione industriale, la vita quotidiana della maggior parte degli uomini si svolgeva all’interno di tre cornici ideali: la famiglia nucleare, allargata e la comunità locale ristretta” (p. 442). Ora l’unica cornice di riferimento è quella globale, l’adolescente insoddisfatto di Nairobi ha lo stesso vissuto psicologico dell’adolescente insoddisfatto di Parigi. La soddisfazione personale, diciamo pure la felicità individuale, è commusurata alle aspettative. Harari sostiene che i cacciatori-raccoglitori da cui siamo discesi erano probabilmente più soddisfatti degli insoddisfattid elle nostre metropoli: “Se la felicità è determinata dalle aspettative, i due pilastri della nostra società – i mass media e l’industria pubblicataria, possono involontariamente impoverire le riserve globali della contentezza” (p. 477).
Un ottimo libro, lo ribadisco, da leggere per conservare lo spirito positivo che ha sempre animato l’illuminismo, seppure sempre accoppiato a un fondo di pessimismo, di cui la ragione non manca mai di fornire le menti più attente.

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