Recensione: Byung-Chul Han, Le non cose

Byung-Chul Han
LE NON COSE
Edizioni Einaudi, pp. 120, € 10
Traduzione di Simona Aglan-Buttazzi

Il filosofo di cui presentiamo il libro nasce a Seul nel 1959 ma si forma in occidente; il suo sguardo sulla società presente è quindi un misto tra i più rilevanti pensatori della contemporaneità (Heidegger e Deleuze, solo per citare due autori trattati nel volume) e una visione venata da un certo misticismo orientale, da non confondersi con le banalità new age. Ma andiamo con ordine.
Cosa sono le non cose? Le non cose sono oggetti indifferenti al nostro cuore, alla nostra percezione affettiva della realtà. Le non cose possono nascere solo quando le cose, da uno statuto di centralità causato dalla loro limitata disponibilità, passano a una condizione di eccedenza, non centralità nella vita individuale: «La rivoluzione industriale ha rinsaldato e ampliato l’ambito oggettuale, allontanandoci solo dalla natura e dall’artigianato. La digitalizzazione, invece, ha messo la parola fine al paradigma oggettuale» (p. 8). Le cose sono state trasformate con la scomparsa della società della scarsità; diventano oggetti immateriali a causa della loro completa sostituibilità. La scomparsa degli oggetti libidici attorno a cui veniva costituita la personalità del ‘900 – gli oggetti libidici sono oggetti sui quali viene riversato un forte investimento affettivo che li rende insostituibili – ha determinato anche un mutamento psicologico dell’uomo occidentale. Su questo ci soffermeremo alla fine, ma è un punto che va tenuto ben saldo in tutto il discorso che seguirà.
Al posto delle cose oggi c’è l’informazione. Questa nozione, quanto mai incerta vista la sua natura immateriale, ha inglobato in sé le cose; riuscendo a includere all’interno della propria sfera le cose, l’informazione ha dato il via a un’espansione potenzialmente illimitata della sua sfera di influenza. La conseguenza di questo dato di fatto è che è sempre più sottile la linea su cui ci troviamo a camminare per distinguere il vero – oggettivo – dal falso – informativo – proprio perché tutto è diventato informazione: «L’entropia informativa con la sua rapidissima crescita, vale a dire il caos informativo, ci scaraventa in un mondo post fattuale che pialla la differenziazione tra il vero e il falso» (p. 11).
Per Hegel la vita consiste nella trasformazione della realtà: e dato che la vita è anche, essenzialmente, una questione spirituale, il lavoro che un uomo mette in atto ne sostanzia lo spirito. Lo spirito si incarna nella mano che lavora. L’uomo contemporaneo invece di una mano che trasforma la realtà, fa uso di una realtà digitale che all’apparenza lo libera dalle costrizioni di quella materiale: «Col suo effetto emancipatore, la digitalizzazione prospetta un modo di vivere equiparabile a un gioco. Esso crea una disoccupazione digitale non motivata da alcuna congiuntura» (p. 15). Di conseguenza lo spirito dell’uomo contemporaneo è uno spirito disoccupato. Questa disoccupazione viene erroneamente vista come una specifica forma di libertà, la libertà di mantenere lo spirito aperto a ogni forma di sollecitazione. Lo spirito del soggetto diventa libero di rispondere in una modalità completamente non codificata agli stimoli esterni: «Ogni epoca definisce la libertà in maniera diversa. Nell’antichità, libertà voleva dire non essere schiavi. Nell’epoca moderna la libertà viene interiorizzata quale autonomia del soggetto. È libertà d’azione. Oggi tale libertà di azione sprofonda nella libertà di scegliere e consumare. L’uomo senza mani del futuro si dedica a una libertà in punta di dita. […] La libertà in punta di dita si rivela un’illusione. […] Il reddito minimo universale e i videogiochi sarebbero la versione moderna del panem et circensem» (p. 17).
Questa libertà di scegliere e consumare si basa su un generale indebolimento della capacità di investimento libidico. Questa contemporanea forma di libertà si basa sul fatto che gli oggetti digitali, le non cose, non portano con sé alcun tipo di negatività; in altre parole non oppongono ai desideri del soggetto nulla se non il proprio costo. La completa libertà nel rapporto con le non cose porta a un impoverimento nella struttura della realtà materiale, nello specifico nella struttura della comunità che sulle cose materiali costruisce il proprio fondamento. Una «comunità dominata dalle informazioni e dagli infomi è invece disadorna» (p. 32), è cioè una comunità che non ha più bisogno di abbellire la realtà, perché composta prevalentemente da cittadini autoreferenziali. Principale strumento di questa autoreferenzialità è lo smartphone.
Lo smartphone è il principale infoma – oggetto elaboratore di informazioni – della contemporaneità. Date le sue dimensioni e il costo contenuto, uno smartphone è il mezzo che consente un afflusso smisurato di informazioni a chiunque. Il soggetto, senza accorgersene e mantenendo una libertà illusoria, impara così ad avere con la realtà solo un rapporto superficiale, basato su informazioni, e non su un approfondimento della natura materiale, con le ovvie resistenze che essa oppone. L’Altro che abita la realtà diviene in breve uno sconosciuto e quindi un nemico, un pericolo: «Insieme allo smartphone ci ritiriamo in un ambito narcisistico, protetto dalle imponderabilità dell’altro» (p. 39).
Una delle caratteristiche dominanti nello smartphone è la sua capacità di produrre fotografie, immagini digitali della realtà. Questa capacità di creare immagini del reale in maniera indifferente ha esacerbato una tendenza che già Benjamin aveva visto in atto con la fotografia: in essa – e a maggior ragione con lo smartphone – il valore espositivo della rappresentazione scaccia quello culturale. Oggi è più importante fotografare per farsi vedere che per rappresentare il mondo: «Fare selfie è un atto comunicativo, per cui devono essere esposti allo sguardo degli altri, devono essere condivisi. La loro essenza è l’esibizione, mentre a caratterizzare la FOTOGRAFIA è il mistero» (p. 45). L’assenza di mistero nella rappresentazione di sé e del proprio gruppo è l’indice della fine di un progetto umano, perché è nel mistero, nel non conosciuto, in tutto ciò che c’è sempre e ancora da scoprire che si annida il destino dell’umanità: «Il selfie annuncia la scomparsa dell’essere umano munito di un destino e di una storia» (p. 47).
Uno sguardo poco rassicurante quello del nostro filosofo. Poco oltre prosegue dicendo che «Se il mondo è unicamente costituito da oggetti disponibili e consumabili, non possiamo entrarvi in relazione. Non è neppure possibile instaurare una relazione con le informazioni. […] La mancanza di relazione e di legame provoca una crescente povertà di mondo» (p. 67). Già Kafka, prima dei selfie, aveva evidenziato questo rischio nella figura di Odradek. Il piccolo oggetto indefinibile del suo racconto è, appunto, l’indefinibile, l’assolutamente altro con cui abbiamo gradualmente disimparato a relazionarci: «Agli infomi manca del tutto la caparbietà dell’oggetto. Essi sono l’esatto contrario di Odradek, la cosa riottosa. […] Lo strato informativo, posato sulle cose come una membrana senza pori, scherma la percezione da qualsiasi intensità» (p. 71). Lo stato attuale è quindi una nostra responsabilità; il nostro avere trasformato il mondo delle cose in un mondo di non cose ci ha privato sia di un destino sia di un’intensità con cui vivere ogni momento della nostra vita. Si potrebbe obiettare alle considerazioni di Han che è anche lecito disporre di un po’ di tempo privo di intensità, ma forse è proprio qui il problema: l’uomo non è in grado di vivere nel giusto mezzo perché il suo spirito non è libero. È stato prima vittima e guida delle cose, è ora solo vittima delle non cose; questo perché «L’incapacità di opporre resistenza a uno stimolo finisce per distruggere lo spirito» (p. 102).
Il libro si conclude con l’unica speranza che ci resta: «Nel corso della digitalizzazione abbiamo smarrito qualsiasi coscienza materiale, per cui una ri-romanticizzazione del mondo dovrebbe avere come suo presupposto una sua ri-materializzazione» (p. 118).

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