Recensione: Fabio Bartolomei, We Are Family, e/o

Fabio Bartolomei, We Are Family
e/o, pp. 279, euro 17
A partire dagli anni ’70 a oggi la vita della famiglia Santamaria ci viene presentata, con notevole garbo e ordine, dal bravo Fabio Bartolomei. L’enfant prodige e voce narrante è il piccolo Al – battezzato Almerico – bambino geniale che racconta da suo punto di vista, apparentemente da sprovveduto, la vita di una famiglia tipo dell’Italia di quegli anni. Mamma casalinga perfetta, padre autista di autobus e sorella litigiosa. C’è tutto per un quadretto da famiglia Ikea, ed il bambino lo vede così; ma il lettore riconosce dietro la descrizione senza malizia di ciò che succede i problemi di una famiglia monoreddito per arrivare a fine mese; la casa che non si trova, il lavoro sempre in pericolo, i figli con i loro problemi a scuola.
Il tono della narrazione non si fa mai però pesante e la vera svolta l’abbiamo con la seconda parte. Da quello che appare come un quadretto verista descritto con le parole di un bambino che ha serie difficoltà nell’inserimento sociale, dunque un ‘verismo irreale’, passiamo ad una situazione chiaramente metaforica quando i genitori decidono di concedersi il viaggio di nozze che non si sono mai potuti permettere; e partono. E stanno via anni e anni, e intanto il piccolo Al sotto la sorveglianza della sorella Vittoria cresce. Unico legame con i genitori, che Al attende per offrire loro la Casa Ideale, alla cui ricerca ricorda dedicate le domeniche della sua infanzia, le lettere che la sorella Vittoria gli mostra ogni tanto.
La vita però continua e i due crescono, migliorando e mantenendo la casa ideale, nell’attesa di un Godot che non può arrivare. Ma dato che i protagonisti stanno crescendo, l’inutilità dell’attesa è sconfitta dalle urgenze della vita e dalla forza del ricordo.
Possono bastare le parole scritte ed i ricordi a mantenere unita una famiglia?

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