Recensione: Sandro Veronesi, XY, Fandango

Sandro Veronesi, XY

Fandango, pp. 369

Come spesso capita agli scrittori, il tentativo di produrre un romanzo la cui vicenda riesca ad abbracciare un orizzonte di senso un po’ più vasto, un po’ oltre la pura storiella per far passare il tempo, ‘perché quando arrivo a casa la sera non c’ho voglia di guardare la tele’, sfocia in un prodotto ibrido. Ibrido perché né riesce ad esprimere molto senso né convince di essere una valida alternativa alla televisione. Vediamo comunque brevemente la storia.

In un paesino sperduto tra le montagne, Borgo San Giuda, avviene un fatto di sangue inspiegabile; undici persone vengono trovate morte in un bosco fuori dal paese. Nessuno riesce a capire cosa sia successo perché, le persone sembrano essere state uccise tutte in modo diverse, ed ogni modo appare non plausibile con il luogo: c’è addirittura una persona che sembra uccisa da uno squalo. A ritrovare i corpi sono tre persone, tra cui vi è il prete del paesino. Parte l’inchiesta della polizia ma è un’inchiesta segretata, perché il potere politico decide che la vera, ma incredibile, versione dei fatti non può essere trasmessa alla nazione. Intanto a valle, vicino a Cles, una giovane psichiatra vede riaprirsi una ferita al dito che l’aveva costretta a cambiare vita quando aveva sedici anni. Lo scrittore ci fa capire che tra la ferita e le morti deve esserci un rapporto. Inoltre la donna era la compagna di uno dei magistrati incaricati delle indagini; costui, per riacchiappare la donna, Giovanna, le fa avere delle informazioni sul caso. Giovanna allora decide di andare a San Giuda per capire il legame tra i due fatti. Giunta al borgo, trova ospitalità nella casetta del prete del quale diventa in breve amica e col quale, attraverso una conversazione piena di vuoti, paragonabile ad una seduta dall’analista, giunge ad accettare la mancanza di senso di quello che è accaduto.

Nel riassunto ho tagliato molti particolari che fanno avanzare a spintoni la vicenda, perché sono ovviamente particolari inutili, e dato che riempiono la quasi totalità della storia, rendono la stessa piuttosto artefatta, e qui torniamo a quanto detto all’inizio. La possibilità di esprimere un senso attraverso la letteratura deve partire dal contenuto, non essere racchiuso nelle intenzioni dello scrittore; che possono anche essere buone, ma a noi lettori non interessa. I due protagonisti del romanzo sono gli unici elementi necessari della storia, che avrebbe potuto risolversi in un dialogo a due di una cinquantina di pagine. Il prete incarna la fede che ha però bisogno della ragione, mentre Giovanna è la ragione che si sente sperduta senza una fede cui attaccarsi. Attraverso la storia, cioè attraverso i loro dialoghi, i due arrivano a capire la propria natura intima, per cui il prete torna in Sud America ad occuparsi di una parrocchia poverissima e Giovanna decide di mollare il servizio pubblico per dedicarsi interamente alla libera professione. Si percepisce nella scrittura una sincerità d’intenti nella descrizione di questi destini individuali che paiono esprimere il senso, però mi sembra esagerato dedicare 370 pagine per spiegare che la psicoanalisi è un giochino che accetta la mancanza di senso della vita come suo fondamento solo per potere superare questa mancanza.

Dal punto di vista della letteratura sarebbe stato molto più interessante spiegare le undici morti, e invece queste morti – elemento narrativo gratuito – devono assumere la valenza di simbolo e quindi rimangono lì, a monito dei sopravvissuti, senza riuscire a significare nulla. Ma un simbolo che non significa, che simbolo è?

 Un romanzo costruito attorno ad un fatto non significante è quello che ci riserverà sempre più spesso la letteratura, riuscendo così forse a raggiungere un pubblico abbastanza ampio, un pubblico che desidera semplicemente rispecchiarsi in ciò che legge, ma nel contempo riuscirà, involontariamente, a consegnarsi mani e piedi alla sua trasformazione in merce immateriale, elettronica.

Il prossimo romanzo di Veronesi si intitolerà 01?

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