Recensione: Goffredo Fofi, Zone Grigie. Conformismo e viltà nell’Italia d’oggi, Donzelli

Goffredo Fofi, Zone Grigie. Conformismo e viltà nell’Italia d’oggi

Donzelli, pp. 224, euro 16

Goffredo Fofi offre interessanti spunti di discussione in questo disilluso libro di politica; sì, perché proprio di politica occorre parlare oggi in un paese come l’Italia ove l’unico discorso che pare interessare tutti è quello economico. Se si vuole che il benessere raggiunga tutti, e benessere non è ovviamente da intendersi come possesso di macchina e televisore con megaschermo, occorre che la politica torni ad imporre i suoi ragionamenti all’economia. Partiamo quindi da una frase nella quale Fofi richiama alla memoria uno dei massimi esponenti dell’ambientalismo e della non violenza del nostro paese: “Se si dovesse racchiudere in una formula ciò che Alex Langer ci ha insegnato, non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica” (p. 50).

La nostra, in particolare, classe politica è sprovvista di carità nel senso che le decisioni non vengono prese in funzione dell’altro, prossimo e reale, ma solo perché così richiede il mantenimento del circo mediatico su cui la politica è innestata. Occorre mostrare carità, non esercitarla veramente. Per avere un esempio, Fofi cita il caso della Roma di Veltroni (pp.74 – 79) le cui insufficienze e meschinità hanno consegnato la capitale nelle mani di una destra forse più coerente nel seguire i suoi presupposti teorici. Il problema, per la sinistra che voglia ancora essere tale, è appunto la mancanza di coerenza tra fini e mezzi della sinistra politica ufficiale. Questo stato di cose a tutti evidente ha determinato uno slittamento della popolazione elettorale generando tre distinte popolazioni di attori sociali: “Direi che siamo in presenza di tre culture dominanti nel nostro paese: la cultura della destra, la cultura della zona grigia e la cultura di infime minoranze di non-consenzienti” (pp. 32-33). La cultura della zona grigia è fondamentalmente una zona di non cultura, di rinuncia all’azione vista l’apparente immodificabilità dell’andazzo generale. Ne consegue logicamente che solo attraverso la cultura è possibile modificare lo stato di cose. In questo senso lo sguardo che Fofi dà alla scuola, come elemento rilevante nel processo di trasmissione della cultura, è altrettanto sconsolato: “Lo stato della nostra scuola è quello che è, il disastro è compiuto da tempo e ha tanti responsabili, e a me sembra un miracolo che qualcosa di buono sopravviva, soprattutto nelle elementari, perché non si diventa maestri elementari se quel lavoro non ti piace, mentre negli altri ordini vige la norma del ‘rifugio’ per chi non ce la fa altrove, e di vocazione è abusivo parlare. (…). Ma c’è un punto su cui oggi mi pare giusto insistere. Tanti anni fa, ci furono dibattiti intensissimi tra i maestri e le maestre elementari delle minoranze più solide, anticonfessionali, rinnovatrici, e cioè tra i freinetiani e i comunisti, e ricordo bene la disputa tra ‘quelli del metodo’ e ‘quelli del contenuto’. Nel Mce (movimento di cooperazione educativa) attuale l’insistenza sul metodo si è fatta forse eccessiva e trascura l’allargamento della riflessione e dell’intervento a discorsi più vasti, dei quali invece c’è sommo bisogno. Questi non sono tempi normali, e se è fondamentale precisare il metodo, in rapporto alle esigenze e al rispetto dei bambini, è però indispensabili occuparsi anche d’altro e di più” (pp. 38-39). Questo di più è la libertà del soggetto che gli proviene dallo sganciamento dal flusso di informazioni standardizzate che inevitabilmente gli piombano addosso quando sottoposto ad insegnamento secondo un metodo.

Ma la libertà non ha solo aspetti positivi, ne ha anche di negativi. La libertà è anche capacità di accettare il conflitto, rifiutare ciò che non funziona, imparare a porsi dei limiti in sostanza. Il lento e alla fine vittorioso appiattimento delle differenza tra destra (moderata) e sinistra (moderata) nel campo dell’educazione è il frutto di una politica culturale mirante solo all’organizzazione del tempo libero, non all’incentivazione dell’approfondimento: “Frutto della guerra fredda, quelle differenze (tra cattolici e comunisti) sono appiattite secondo Don Milani da una comune accettazione di un modello di intervento culturale che opera appunto sul tempo libero, invece che sulla conoscenza, lo studio, il ragionamento, ed è appunto per questo che il conflitto tra Don Camillo e Peppone è sempre destinato a rientrare, oltre le fedi e le ideologie, ed è più apparente che sostanziale…” (p. 100).

La contrapposizione resta reale invece tra la destra alleata alla zona grigia, da una parte, e le minoranze resistenti dall’altra. Nella contrapposizione tra un illuminismo bieco e miope, alla De Sade ed un cristianesimo penitenziale alla Pascal Fofi sostiene la possibilità di una terza via, espressa oggi soprattutto dalle minoranze attive nel campo dell’intervento concreto indifferente alla pubblicità mediatica (“La pubblicità è il fascismo del nostro tempo” p. 110). Il punto è che la carità di cui si diceva all’inizio non è dotazione organica dell’individuo, ma una competenza sociale che va acquisita attraverso l’imitazione e la riflessione. Solo un solido ancoraggio alla materialità quotidiana può garantire il singolo nell’esercizio della carità e, in quest’epoca di liquidità del reale, le più certe nell’offrire questa possibilità ai propri simili sono le frange minoritarie del mondo cristiano: “La Chiesa – la sua dimensione ufficiale – semplicemente non è all’altezza dei compiti che dovrebbe assumersi e che pretende di assumere. Eppure la chiesa non è solo questo. Ed è giocoforza constatare che solo nella chiesa, o ai suoi margini, o nelle sue pieghe e nelle sue minoranze, è possibile trovare ancora quel tanto di morale – teorica e pratica, che cioè si trasferisce immediatamente nei fatti – che ha finito per mancare quasi in assoluto nel campo di altre forze che ne sono state in passato portatrici: la sinistra” (p. 176).

La morale. Avere una moralità forte permetterebbe di scavalcare la politica affaristica di quanti vogliono semplicemente che le cose continuino a funzionare, terrorizzati dalla semplice possibilità che tutto si fermi, una forma degenerata dall’horror vacui; o meglio, una forma attuale, perché le paure odierne non sono più metafisiche (se ci fosse il vuoto il cosmo si fermerebbe) ma economiche (se si ferma il commercio non posso più permettermi la vita che faccio): “Rileggere allo stesso tempo Capitini e Anders, guardarsi intorno non fidandosi degli occhi, partecipare, tanto per cominciare, con buone pratiche di solidarietà e non fermarsi alla soddisfazione del ‘particulare’, anche quello mascherato dalle molte forme recenti di falsa coscienza, discutere i gradi della propria compromissione nel beneficio ricavabile dalla situazione presente, e cioè della propria oggettiva complicità o corruzione, può allora diventare molto più istruttivo e stimolante che non disputare con i tardomarxisti o i neoriformisti locali. I risultati cui si giungerà non potranno che essere radicali in molte direzioni, e più esattamente in quella dell’invenzione di molteplici forme radicali di disobbedienza civile. Ma è proprio questo, mi pare, che troppi di noi vogliono evitare” (pp. 82-83).

Contribuire con la disobbedienza civile a superare quella che il filosofo Jerry Cohen chiama ‘la fase predatoria dello sviluppo umano’, “resta il compito fondamentale di coloro che temono le tendenze del presente, affermate dal dominio dell’oligarchia capitalista e della sua morale, della sua capacità di corrompere o annichilire” (p. 91) Il rifiuto consapevole a farsi triturare nel meccanismo del mercato, mantenendo una correttezza verso il proprio simile ed un rispetto verso il proprio mondo, spendendosi ove possibile affinché l’altro colga il nostro intento umano, differente dallo scopo mercantile dell’economia. Questa è da un lato il riconoscimento della sconfitta degli intenti sociali dell’illuminismo, dall’altra l’unica via percorribile che consenta di sfuggire al capitalismo. “Sembra paradossale, ma se si vuole contribuire alla liberazione di tutti bisogna lavorare per pochi. Dal dopoguerra in poi si è pensato che pedagogia e democrazia procedessero congiunte. Oggi questo discorso non vale più” (p. 152).

A questo punto, è possibile trarre delle conclusioni?

Dato che il libro di Fofi non si vuole ergere a trattato sociologico, mi pare opportuno prenderlo semplicemente come un consiglio lungo e appassionato sulla via da percorre per evitare che la zona grigia imperante arrivi ad occupare la vita di chi è ancora in grado di distinguere tra gli interessi personali e quelli generali mostrando i tristi esempi di chi è caduto lungo la strada. E’ anche una requisitoria feroce sugli errori della sinistra ed il riconoscimento onesto di una maggiore ‘solidità metafisica’ dei gruppi minoritari della base cattolica del nostro paese, dai quali c’è più da aspettarsi che non dai soliti agitatori mediatici della sinistra per bene. La fiducia in un senso del mondo avvantaggia i credenti, seppur marginali, rispetto ai materialisti, sempre passibili di essere assorbiti dal grigiore delle cose: “In un tempo in cui i modelli della sinistra somigliano da matti (sì, proprio da matti) a quelli della destra, li hanno sposati e ci si confondono, vanno riaffermate un’idea e una pratica della cultura come ricerca, esperimento, inquietudine, domanda. Come conflitto” (p. 124).

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