Rcensione: Peter Froberg Idling, Il sorriso di Pol Pot, Iperborea

Iperborea, pp. 344, euro 17
Traduzione Laura Cangemi
 
Sono lontani gli anni in cui Pol Pot, insieme ad altri rivoluzionari infiammava gli animi dei giovani occidentali che cercavano un nuovo modus vivendi; sono passati più di trent’anni da allora e possiamo ben dire che è tempo di bilanci. Si dirà che sono già stati fatti, che gli orrori dei regimi dittatoriali sono noti, che sulla bilancia i morti di Hitler fanno il paio con quelli di Stalin e Pol Pot. Questa posizione rischia però di fare perdere di vista la specificità delle contingenze storiche ed il significato che, alla luce di questo, assumono i massacri che i vari dittatori hanno inesorabilmente perpetrato.
Fröberg Idling Peter è il giornalista svedese che ci conduce con estrema competenza e sensibilità all’interno dell’intricata matassa che vede al suo inizio un giovane studente cambogiano trasferito a Parigi con una borsa di studio. Da questo punto, sul quale ci sono poche notizie certe, si sviluppa la storia della Repubblica della Kampuchea, il nome che la Cambogia assunse nei quattro anni in cui Pol Pot mantenne il potere.
I fatti storici che condussero i rivoluzionari Khmer rossi a ridurre di un quarto la popolazione della Cambogia – le stime dei morti oscillano tra i 750.000 e i due milioni – sono analizzati nel tentativo di cogliere un senso, di rivelare il disegno modernista che animava la rivoluzione di Pol Pot; un modernismo però visto da occhi orientali, occhi orientali che si dovevano confrontare, senza esserne capaci, con una situazione di partenza disastrosa, con nemici vicini (Vietnam) e lontani (America) e con condizioni oggettive che avrebbero dovuto suggerire la possibilità di una strada diversa, più umana, per far procedere la rivoluzione. Così però non è stato, e Froberg ci mostra tutti i limiti della classe dirigente che hanno avuto conseguenze disastrose per il popolo.
Com’è ovvio lascio ai lettori i dettagli, spesso cruenti e scioccanti, della prassi rivoluzionaria dei Khmer rossi. Voglio però spostare l’attenzione su due aspetti di quanto raccontato che in qualche modo portano il lettore a ragionare sui fatti al di fuori del libro.
In primis, quando Pol Pot arrivò a Parigi era uno studente, marxista è vero, ma pur sempre uno studente. Dovette tornare in Cambogia perché non era riuscito a farsi rinnovare la borsa di studio. Se avesse studiato un po’ di più, o se avesse avuto dei professori più comprensivi o se si fosse innamorato di una parigina e si fosse messo a fare il cameriere in un bistrot per mantenersi, forse la Storia avrebbe preso un’altra piega. Lui, come marxista, avrà visto nel suo essere respinto agli esami una necessità storica?
In secondo luogo il retro di copertina riporta la notizia che questo libro ha vinto nel 2007 il premio dei lettori svedesi. Io non so quali siano i criteri per questo premio né se in Italia ve ne siano (da noi c’è solo il passaparola che fa vendere un milione di copie alla Solitudine dei numeri primi); probabilmente anche in Svezia la letteratura mediana ha un pubblico ampio, probabilmente anche lì i libri che ‘piacciono alle masse’ hanno una visibilità superiore al dovuto. Resta il fatto che un libro come questo, difficile e ostico, ha avuto un riconoscimento pubblico: il che, in Italia, è ovviamente impossibile; non so, forse è una differenza antropologicamente fondata, e in quanto tale ineliminabile, altrettanto ineliminabile del sorriso che hanno stampato in faccia i dittatori, convinti di essere nel giusto mentre compiono i loro crimini.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *