Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie

Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa,
Ponte alle Grazie, pp. 196, euro 15
Traduzione Cinzia Arruzza
 
Il capitalismo si muove a proprio agio, all’apparenza, in una situazione come la nostra in cui è diventata palese l’assenza assoluta di fondamenti. Basandosi su una dinamica positiva, il capitalismo arraffa ciò che può a destra e a manca: e procede. Il capitalismo diviene in se stesso rivoluzionario, inglobando le motivazioni teoriche dell’esistenza di un’alternativa comunista. Basta guardare al panorama politico nazionale per rendersi conto di questa perdita di orizzonte della sinistra; ma non è che all’estero le cose vadano molto meglio. Per assurdo, il progressista Obama è quello che è stato chiamato dalle elite economiche ad intervenire per calmierare la situazione dopo la crisi dei mercati: “Persino negli USA, il bastione del liberalismo economico, il capitalismo è costretto a reinventare il socialismo per salvarsi” (p. 123). Lui meglio di chiunque altro c’è riuscito perché il suo intervento – miliardi di dollari per stabilizzare le banche e niente alle migliaia di disoccupati gettati sulla strada – è stato visto come necessario, irrinunciabile e quindi non di parte, non criticabile; che si sia di destra o di sinistra occorre intervenire perché la macchina prosegua. Il politico trasformato in un tecnico.
L’intervento statale a sostegno del capitalismo si basa su un inganno ideologico. Viene fatto credere che la crisi è il frutto di alcune mele marce, non della regole stesse di funzionamento del sistema: “Il compito centrale dell’ideologia dominante nella crisi attuale è imporre una narrazione che attribuisca la colpa del collasso, non al sistema capitalistico globale in quanto tale, ma alle sue deviazioni secondarie e contingenti” (p. 30). Le conseguenze di questo sono ovvie: tolte le mele marce, il sistema può proseguire, fino alla prossima crisi ovviamente. L’errore della sinistra è credere che di fronte a queste ripetute debacle del sistema possa emergere naturalmente una opposizione della maggioranza dei meno abbienti, quando avviene proprio il contrario: “Ogni aspettativa ingenua della sinistra che la crisi finanziaria ed economica in corso aprirà necessariamente uno spazio per la sinistra radicale è quindi senza dubbio pericolosamente miope” (p. 28). Di fronte ad una situazione di aumento dell’insicurezza, la risposta della massa è un arroccamento sulle posizioni della destra.
Questo dipende strettamente dalla complessità che ha raggiunto la nostra società. La situazione è talmente complessa che non è più possibile fornire una risposta semplice e nel contempo efficace; ogni tentativo di semplificazione coincide necessariamente con la falsità. Eppure è la semplicità quello che vuole la gente: “Il populismo è in ultima istanza sorretto sempre dall’esasperazione e dalla frustrazione della gente comune, dal grido “non voglio sapere cosa sta succedendo, ne ho solo abbastanza” (p. 80). Alla gente comune non interessa il sovvertimento dell’ordine costituito per la realizzazione di un ordine più giusto (il comunismo è il paradiso in terra) poiché questo ordine è dubbio che possa esistere e in effetti non viene percepito naturalmente: è una costruzione mentale; ma, perché un’idea (l’idea del comunismo) possa sopravvivere è necessario che venga rafforzata dalla realtà. Ciò che sta avvenendo ora, che sta avvenendo ormai da un po’ di anni, è proprio la scomparsa dalla realtà di atti che confermano l’idea. Addirittura questa dinamica è confluita nel campo avverso: “Qui la serie è finita, semplicemente perché il nemico si è impadronito della dinamica rivoluzionaria: non si può più giocare al gioco della sovversione dell’ordine dalla posizione della sua “parte dei senza parte”, dal momento che l’ordine ora contiene già la sua sovversione permanente. Con il pieno sviluppo del capitalismo, è la vita normale stessa che, in un certo modo, è resa carnevalesca, con i suoi costanti rovesci, crisi e reinvenzioni, ed è la critica del capitalismo, da una posizione etica stabile, che oggi appare più che mai un’eccezion! e” (p. 163).
Il punto nodale è proprio questo. Il comunismo è una posizione etica sulla realtà, mentre il capitalismo è una posizione pragmatica che, in quanto pragmatos (fatto), è in essenza positiva e mirante all’azione e quindi vincente sull’etica che, di suo, tenderebbe ad immobilizzare la realtà per analizzarla. Questo però non è più possibile farlo, nemmeno secondo le modalità limitate del passato – l’etica non è mai stata al primo posto come preoccupazione politica – perché il capitalismo ha annullato lo spazio e il tempo destinati all’etica. Questo annullamento ha però minato le basi su cui poggiava il capitalismo stesso, che sta quindi cercando di recuperare un po’ di statalismo per poter continuare: “… mentre la sua logica è de-regolatrice, antistatale, nomadica, de territorializzante e così via, la sua tendenza chiave a trasformare il profitto in rendita segnala un rafforzamento del ruolo dello Stato, la cui funzione regolatrice è sempre più onnipresente (p. 182).
La vittoria della rendita sul profitto sta ad indicare la fine dello sfruttamento manifesto della forza lavoro non perché lo sfruttamento sia cessato ma perché è stato sostituto da uno sfruttamento occulto; la trasformazione dell’intero tempo di vita in tempo consumistico volge proprio in questa direzione. Ora il capitalismo ha bisogno di regole, garantite dallo stato, che gli consentano di mantenere il sistema in perenne mobilità. Stante questa situazione, l’unica opposizione possibile da parte dell’ideale comunista sta nella riproposizione di ideali ormai passati ma che, secondo Zizek, rivestono ancora piena attualità: “Uno dei mantra della sinistra postmoderna è stato che dobbiamo lasciarci finalmente alle spalle il paradigma giacobino-leninista del potere dittatoriale centralizzato. Ma forse è giunto il momento di rovesciare questo mantra e ammettere che una buona dose di questo paradigma giacobino-leninista è proprio ciò di cui la sinistra ha bisogno oggi. Ora più che mai si deve insistere su ciò che Badiou chiama l’Idea eterna del comunismo, o le invarianti comuniste, sui quattro concetti fondamentali operanti sin da Platone attraverso le rivolte millenariste medioevali fino ad arrivare al giacobinismo, al leninismo e al maoismo: rigida giustizia egualitaria, terrore disciplinare, volontarismo politico e fiducia nel popolo” (p. 160).
Questa considerazione di Zizek cade però vittima di tutta l’analisi che la precede. In sostanza, l’impossibilità di un’etica diffusa socialmente richiude il discorso di Zizek alle conventicole dei filosofi e poco oltre – chi legge i suoi libri. L’apparenza positiva su cui si basa il sistema è ingannevole, come abbiamo detto; ma questo inganno non è visibile. La mancanza di questa informazione lascia le persone in un vuoto che viene riempito da movimenti ideologici che è lecito dubitare facciano gli interessi della gente comune. Occorrerebbe sviluppare la capacità di:
– fermarsi
– analizzare l’esistente
– ripartire cambiando direzione in accordo alla ragione.
Per assurdo, dei quattro punti programmatici che cita Zizek solo l’ultimo, la fiducia nel popolo, è quello che dovrebbe essere preso per intero. Da un popolo meritevole di fiducia deriverebbe in automatico la volontà di impegnarsi, di capire, un’implicita capacità di disciplinarsi e un’eguaglianza effettiva: a ciascuno secondo i propri bisogni, da ciascuno secondo le proprie capacità. Però è anche l’unico che non può in nessun modo essere preso in considerazione, poiché la stessa idea di popolo dipende dalle altre idee e non da una realtà materiale. Quindi le tre fasi della rivoluzione sociale proposta non possono avere luogo: “Ciò a cui facciamo riferimento come crisi della democrazia non avviene quindi quando il popolo smette di credere nel potere, ma al contrario quando smette di credere nelle elite, in coloro che sono supposti conoscere per esso e fornire le linee guida, quando sperimenta l’ansia che si accompagna al riconoscimento che il (vero) trono è vuoto, che la decisione ora è realmente sua” (p. 171). L’assunzione della decisione sulle spalle del popolo significa semplicemente lo spostamento alla sfera individuale dei problemi sociali: “Negli ultimi mesi, i personaggi pubblici, dal Papa in giù, ci hanno bombardato con ingiunzioni a lottare contro la cultura dell’avidità eccessiva e del consumo. Questo spettacolo disgustoso di moralizzazione a buon mercato è un’operazione ideologica per eccellenza: la pulsione (ad espandersi) inscritta nel sistema stesso è traslata in questioni di peccato personale, in propensione psicologica privata” (p. 51). Il capitalismo ha imparato ad agganciarsi alla perfezione a questa dinamica di auto colpevolizzazione e conseguente tentativo di auto salvazione. Il consumo, soprattutto simbolico (cfr. Baudri! llard) & egrave; la panacea alla perdita di senso della vita contemporanea: “Ma ciò che l’esistenzialismo non è stato in grado di cogliere è ciò che Adorno ha cercato di incapsulare nel titolo del suo libro su Heidegger, Il gergo dell’autenticità; cioè, il modo in cui l’ideologia egemonica, non limitandosi a reprimere la mancanza di un’identità fissa, mobilita direttamente questa mancanza per alimentare il processo senza fine della ri-creazione di sé consumista” (p. 85). Il sé individuale, consumistico, ha cancellato piano piano la realtà del popolo massa, sostituendola con tante piccole realtà di gruppi di consumatori. Tutti dotati di diritti e di forza contrattuale, ma raramente di consapevolezza: “La società permissiva è precisamente una società che amplia il raggio di ciò che i soggetti hanno il permesso di fare, senza dar loro nessun potere aggiuntivo” (p. 78).
In definitiva, il popolo, che non esiste, crede solo nel potere, che non ha. Al sapere, che dovrebbe dirigere il potere, non crede quasi più nessuno. In questa situazione, di completa assenza di fondamenti e di mancanza di prospettive – il potere non dà nessuna prospettiva poiché vede solo se stesso, è adialettico – riescono ad emergere personaggi che fanno della loro ignoranza la loro bandiera e che si limitano a chiedere ai loro sostenitori di esprimere un atto di fede: “In altri termini la certezza su cui risiede un atto non è una questione di conoscenza, ma una questione di fede: un vero atto non è mai un intervento strategico in una situazione trasparente di cui abbiamo piena coscienza; al contrario, il vero atto riempie il vuoto della nostra conoscenza. (…). Nel momento in cui il grande altro cade, il leader non può più rivendicare una relazione privilegiata con la conoscenza: egli diviene un idiota come tutti gli altri” (p. 190).
La tragedia della completa ignoranza è scivolata nella farsa della fede mal riposta.
Per fortuna che c’è Lui.
Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa
Ponte alle Grazie, pp. 196, euro 15

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