Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi

Karl Polanyi, La grande trasformazione
Einaudi, pp. 320, euro 26
Traduzione Roberto Vigevani
 
Questo è sia un libro di storia, sia un libro di sociologia sia uno di economia; la fusione in un tutto unico di queste tre discipline è un compito arduo, ma Polanyi ci riesce ottenendo un buon risultato, dando al lettore una chiave interpretativa diversa su quello che sta succedendo all’umanità. Due precisazioni però. La prima è che questo libro è stato scritto in America nel ’44, poco prima della fine della guerra. Le affermazioni dell’autore possono quindi risultare in alcuni casi ingenue per chi ha visto quello che è successo negli ultimi sessant’anni all’economia e alla società. Leggerlo può però servire per collocare in una luce diversa la vita economica e sociale più recente. Una seconda e più importante precisazione. Le affermazioni in queste discipline sono spesso difficili da argomentare, si basano su presupposti che occorre condividere e che, sebbene ai partigiani paiano ovvie, ai nemici parranno blasfeme. Leggete questa frase: “E’ l’assenza della minaccia della fame individuale che rende la società primitiva in un certo senso più umana dell’economia di mercato ed allo stesso tempo meno economica” (p. 211). E’ un’esagerazione, è ovvio, eppure su di essa si basa tutto il libro. Sul tentativo cioè di dimostrare che l’economia di mercato non è umana, come i teorici liberali cercano di convincere tutti, in modo particolare negli ultimi trent’anni. La società primitiva non era umana, perché l’uomo non esisteva, esisteva il gruppo. Credo che nessuno sia a priori disposto a rinunciare alle proprie libertà per il gruppo. Ma andiamo al libro.
La grande trasformazione cui si riferisce il nostro autore è quella che ha visto passare la società umana da una realtà fatta di tante piccole comunità autoregolate nelle quali la dimensione economica era una dimensioni in gioco, non certo la principale, ad una realtà dove l’economia gioca indubbiamente il ruolo principale: “…nessuna società potrebbe, naturalmente, sopravvivere per un qualsiasi periodo di tempo senza avere un’economia di qualche genere, tuttavia prima del nostro tempo non è mai esistita un’economia che in linea di principio fosse controllata dai mercati. Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diaciannovesimo secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune sin dalla tarda età della Pietra, il suo ruolo era solo incidentale nei confronti della vita economica” (p. 57).
Ma si verificò la rivoluzione industriale; arrivarono le macchine. Nell’Inghilterra di fine ‘700 iniziò a farsi sentire la pressione per sganciare i vari elementi di cui era formata la comunità per renderli dipendenti dal mercato, per renderli elementi commerciabili: in particolare il lavoro dell’uomo doveva diventare libero, vendibile. Per mostrare quanto la politica fosse, nei bei tempi andati, la regolatrice dell’economia, parliamo della SpeenHamland Law, che dal 1795 al 1834 regolò la vita economica dei ceti bassi in Inghilterra. Essa fu una legge pensata dalla politica per scongiurare gli effetti disgregatori dell’economia che produsse però proprio tali effetti. La cura fu peggiore della malattia. In pratica in base a questa legge lo stato era tenuto ad integrare i mancati guadagni dei lavoratori, ovunque essi fossero, fin al raggiungimento di un limite vitale ritenuto irrinunciabile per la sopravvivenza della famiglia. Una specie di cassa integrazione a vita. Di questa legge approfittarono tutti, i proprietari per non arrischiare investimenti, i lavoratori per non lavorare; tanto c’era l’integrazione. Dopo quarant’anni la legge, che è antitetica rispetto all’ideale liberale di un mercato autoregolato, fu abolita passando immediatamente al campo opposto; nessuna assistenza per i poveri: “Se il povero per umanità doveva essere assistito, il disoccupato per le ragioni dell’industria non doveva essere assistito” (p. 283). Le conseguenze sociali della perdita di questa rete di protezione furono disastrose. Basta leggere il primo volume del Capitale per rendersene conto.
Il passaggio all’economia di mercato rifletteva una trasformazione ideologica della società; “Bruciato da una fede emotiva nella spontaneità, l’atteggiamento del senso comune verso il cambiamento fu abbandonato a favore di una mistica prontezza ad accettare le conseguenze sociali del miglioramento economico, qualunque esse potessero essere” (p. 45). Dopo secoli di assenza di cambiamento, che avevano formato un robusto senso comune poco favorevole ai cambiamenti quali che fossero, l’umanità si lancia nell’avventura della macchina alla quale, senza rendersene conto, cede a poco a poco ogni potere.
Il secolo XIX fu il secolo più pacifico della storia dell’uomo, perché nulla come la guerra è ostile all’espansione del commercio; l’arrivo delle due guerre mondiali fu il segnale del raggiungimento del livello irrisolvibile della conflittualità implicita nell’adozione di un mercato autoregolato a modello per il funzionamento della società. Per essere così pacifico, pace raggiunta dopo la fine dell’avventura napoleonica, i potenti della terra si trovarono d’accordo su quattro principi: “La civiltà del diciannovesimo secolo poggiava su quattro istituzioni. La prima era il sistema dell’equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici. La seconda era la base aurea internazionale che simboleggiava un’organizzazione unica nell’economia mondiale. La terza era il mercato autoregolato che produceva un benessere economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale” (p. 5). Ma il concetto economico fondamentale, la base aurea, è contraddittorio rispetto al concetto politico fondamentale, l’equilibrio di potere tra le potenze. La base aurea sostiene la necessità di garantire un controvalore in oro alla moneta e presuppone quindi un valore stabile della moneta. Perché questo sia possibile occorre che vi sia un equilibrio dei mercati tra domanda e offerta, equilibrio impossibile di fatto per quelle che sono le caratteristiche della produzione industriale, che è in costante mutamento (accelerazione); per ridefinire gli equilibri commerciali ci fu la prima guerra mondiale.
I paesi anglosassoni risposero alla crisi sociale che seguì alla fine della prima guerra in modo diverso rispetto ai paesi continentali, e questo consentì loro di salvarsi dall’ideologia fascista: “L’ostinazione con la quale i liberali avevano, nel corso di un decennio critico, sostenuto l’interventismo autoritario ai fini di una politica deflazionista, si risolse semplicemente in un indebolimento decisivo delle forze democratiche che avrebbero potuto altrimenti allontanare la catastrofe fascista. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti, padroni e non servi della moneta, abbandonarono per tempo l’oro per sfuggire a questo pericolo” (p. 294). Sul continente invece una maggiore lentezza e difficoltà nell’introduzione delle regole economiche a leggi uniche della vita sociale, legate ai ritardi nell’industrializzazione, ebbero effetti a lungo termine su quella che era la concezione dei possibili rimedi ai guasti introdotti dell’indipendenza dell’economia: “Non il pericolo illusorio di una rivoluzione comunista ma il fatto innegabile che la classe lavoratrice era nella posizione di costringere ad interventi probabilmente rovinosi, era la fonte del timore latente che in un momento cruciale scoppiò nel panico fascista” (p. 243). Il fascismo, in altre parole, è la forma assunta dal potere politico per limitare le giustificate richieste delle classi lavoratrici per un recupero della dignità umana contro le regole del mercato. Polanyi, che completò il libro proprio in prossimità della sconfitta del fascismo, lancia un appello di speranza nelle possibilità che uno sguardo consapevole alla dinamica storica responsabile dello stato delle cose potesse in qualche modo riequilibrare l’andamento della vita sociale. Liberalismo e socialismo non vanno contrapposti. Ciò che conta è la responsabil! it&agrav e; individuale. Il liberalismo di Smith non può certo essere confuso con il Lasseiz-faire degli squali delle borse d’oggi, o dei nostri ‘imprenditori’, sempre capaci a chiedere libertà di commercio quando le cose vanno bene. In effetti in origine sia il liberalismo sia il socialismo si potevano unire per certi aspetti con la comune richiesta per una società che fosse più responsabile e più in grado di accettare i rischi normali della vita, una società che tornasse ad essere umana permettendo al singolo però l’espressione delle proprie capacità. Tra i vari personaggi che Polanyi cita, una nota particolare merita Robert Owen, utopista della metà dell’ottocento inglese, che cercò di fondare comunità basate su criteri tecnologici e commerciali che però non si dovevano ridurre alle fabbriche e alle miniere dove erano costretti a lavorare bambini di otto anni per 10/12 ore al giorno; le sue parole valgano a chiusura di questa recensione: “Come disse Robert Owen in un momento di ispirazione: “Se qualcuna delle cause del male non potesse essere allontanata dai nuovi poteri che gli uomini stanno per acquisire, essi impareranno che si tratta di mali necessari ed inevitabili; e le inutili ed infantili lagnanze cesseranno.” Questo è il significato della libertà in una società complessa.” (p. 320).

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