Recensioni: Gyorgy Dragoman, Il re bianco, Einaudi

Gyorgy Dragoman, Il re bianco, Einaudi

Einaudi, pp. 256, euro 19
Traduzione Bruno Ventavoli

Orwell ambientò il suo romanzo più famoso in un ipotetico 1984; qui invece siamo in un imprecisato metà anni ’80 del mondo reale, Romania per la precisione, eppure, in modo del tutto simile, si esce terrorizzati anche dai fatti narrati qui, più veri di quelli ‘inventati’ dal grande Orwell, segno evidente del fatto che la crudeltà dell’uomo verso l’uomo non è frutto del caso, ma il triste segno di uno stato di cose difficilmente modificabile.
Già l’incipit. Sappiamo di essere in Romania, sappiamo che c’era Ceausescu e quindi, quando sappiamo che il bambino di dieci anni, Dzsata, che sta cercando i fiori nei giardini pubblici per l’anniversario di matrimonio della mamma, non vede suo padre da sei mesi, iniziamo a preoccuparci. Dzsta ha visto il padre andarsene accompagnato da due signori che l’hanno fatto salire su una camionetta; non preoccuparti, torno presto, vado ad occuparmi di un lavoro importante sul Danubio. Da allora, solo lettere.
Con il suo sguardo naif sul mondo – la vicenda è raccontata in prima persona con una sorta di flusso di coscienza, con la punteggiatura però – il protagonista ci racconta la sua vita quotidiana, tra la scuola e la casa, l’assenza del padre e il dolore della madre: in tutto questo, il tentativo di continuare a vivere normalmente. In questa atmosfera Dzsata entra gradualmente nella realtà dei fatti, che suo padre è stato mandato in un campo di rieducazione, a scavare il canale dal Danubio al Mar Nero. E’ un mondo estremamente violento quello in cui vive il bambino, tutti agiscono violenza sugli altri come solo atto sensato per sopravvivere. In un paese dove circa un quarto della popolazione faceva parte a vario titolo della struttura di sorveglianza che doveva vigilare sui restanti tre quarti, la paura ed il sospetto sempre all’erta erano il modo giusto di vivere.
Ogni capitolo affronta una diversa situazione in cui il bambino si trova a doversi scontrare con il mondo e le regole; in un regime totalitario però, le regole sono assurde e l’assurdità è palese per noi e per gli occhi del bambino, che deve ancora essere plasmato dalla realtà, ma non per gli adulti che queste regole impongono. Qua e là vi sono ancora briciole d’umanità, in alcuni adulti e nei giochi con i bambini di pari livello, ma alla fine, il ritorno del padre ammanettato per il funerale del nonno di Dzsata, offre il destro all’esplosione dell’insensatezza dalla quale Dzsata fugge, all’inseguimento del padre che è stato frettolosamente rimesse nel furgone che lo riporterà ai campi.
Ma la speranzosa rincorsa del bambino non fa che rinforzare il senso del libro che era già emerso nel capitolo centrale della storia; prima di questo finale Dzsata era stato infatti condotto dalla madre nell’appartamento di un alto funzionario del regime, per ottenere informazioni sulla sorte del marito. La madre – agghindata per piacere, la violenza è anche dover fingere di donare volontariamente il proprio corpo – lo affida al funzionario che lo porta in una stanza; qui lo lascia, e, dopo averlo minacciato di non toccare niente, torna dalla madre. Dzsata incontra in quella stanza uno strano automa, che lo sfida a scacchi. Benché non ne abbia voglia, accetta. L’automa, poco cavallerescamente, si tiene i bianchi. Dopo un po’ di mosse la situazione si mette al peggio, e Dzsata capisce che sta per perdere; ma non vuole perdere. Allora prende un pezzo dalla scacchiera e si alza. L’automa cerca di fermarlo, ma non ci riesce; allora ride e spazza tutti i pezzi dalla scacchiera; poi rovescia la testa all’indietro e crolla a terra.
L’allegoria è palese: l’automa è la società, che costringe l’individuo, il bambino, a giocare un gioco interamente codificato partendo da una posizione di svantaggio; l’unica soluzione, per il singolo, per l’indifeso individuo, consiste nel rifiutare di giocare ma non solo. Occorre anche impedire che l’automa, la macchina sociale, continui a giocare, per salvare gli altri. Solo rubando il re bianco Dzsata si merita di rivedere il padre.
Anche se questo non basterà, probabilmente (?) a salvarlo.

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