Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, Meltemi

Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale

Meltemi, pp. 326, euro 24

Traduzione Silvia Rodeschini

 

“…ci affidiamo all’assunto che il filosofare non sia solo, come si sente molto spesso dire negli ultimi tempi, un’attività priva di un oggetto specifico, ovvero un modus vivendi, ma al contrario essa possegga un’oggettività con propri diritti, per non parlare di un oggetto proprio” (p. 35). Il primo punto da affrontare per parlare di questo ottimo libro è appunto definire l’oggetto della filosofia. Dedicherò la quasi totalità della recensione per illustrare la natura di questo oggetto. Una volta chiarito questo punto, ne conseguirà direttamente il senso pragmatico della filosofia, indivisibile dalla necessità dell’oggetto che la fonda.

Iniziamo allora con il dire che la filosofia non è qui da intendersi in senso classico. Se supponiamo, seguendo l’esempio di Platone e della miriade di suoi apologeti, che esista un mondo perfetto, di cui la filosofia deve ragionare, ed uno imperfetto, nel quale siamo destinati a vivere, la filosofia crea quella spaccatura tra saggezza ed esperienza che nei fatti la connota. La maggioranza dei filosofi tramandati storicamente presume di essere saggia, con la sua esperienza limitata, e pretende di estendere questa saggezza a livello universale. Platone e il Socrate da lui tramandatoci sono il primo esempio di come la sfera della conoscenza teorica abbia da sempre cercato di includere la sfera della conoscenza pratica, ignorando ad arte il rapporto dialettico che vige tra le due dimensioni. Platone è il segnale della vittoria dell’intento equilibratore della filosofia (Parmenide) su quello più dinamico, evolutivo (Eraclito). La globalizzazione ha inizio con i filosofi greci.

Questa paleoglobalizzazione si estende nei fatti fino alla fine del medioevo. Per tutto questo periodo, preistorico se vogliamo, l’uomo assume la verità come un oggetto esistente nelle cose. Sul finire del quattrocento (le date valgono in linea di massima, dato che siamo di fronte ad un processo continuo) si verifica una svolta: “La verità non viene ora definitivamente più intesa come ciò che si mostra a partire da se stessa, nel senso della physis greca oppure nel senso della rivelazione cristiana (…). Queste precomprensioni antiche e medievali della verità scompaiono nell’epoca della ricerca, poiché tanto l’una che l’altra concepiscono la verità come qualcosa che, prima di qualsiasi intervento umano, si auto-palesa nel senso pieno di questa aletheia greca che significava all’incirca ‘annuncio non velato’ (…). Con l’avvento della modernità la verità stessa sembra essere passata all’epoca della sua rilevabilità artificiale” p. 137.

Il passaggio alla modernità rende la verità qualcosa di soggettivo o, per non assumere toni falsamente relativisti – la modernità, il frutto eminente dell’occidente, non è stata per niente relativista – qualcosa di individuale. (Attenzione, soggettivo non è individuale. Il soggettivo si fonda su un oggettivo, mentre l’individuale è autoreferenziale). Attraverso la formazione di un soggetto che afferma se stesso, il proprio destino, attraverso le proprie azioni, è possibile cogliere un senso negli ultimi secoli di storia umana. Il soggetto in quanto tale è infatti una nozione di recente formazione, che è emersa a fatica da un’umanità poco incline a riconoscere valore all’individualità.

“Per avere un mondo ci si doveva lasciar divorare dal suo luogo. Senza essere posseduti da (quella che più tardi assumerà il nome neutralizzante di) una propria cultura non vi era accesso né agli uomini né alle cose” (p. 262). Il bisogno di individualità si è generalizzato nel periodo che Sloterdjik definisce di autentica globalizzazione, che va dal 1492 al 1945. In questo periodo l’uomo occidentale ha imposto una propria visione del mondo al mondo stesso, togliendo se si vuol dire il velo di Maya. Si è iniziato a capire che tutto si riduce a rappresentazione: “L’essenza della modernità è la conquista del mondo risolto in immagine. Il termine immagine significa in questo caso: la configurazione della produzione rappresentante” (Heidegger, 1938, cit., p. 58).

Il periodo storico delle grandi scoperte geografiche viene utilizzato a mo’ d’esempio per illustrare il modo di procedere di questa occidentalizzazione. Lo scopritore che giunge in un luogo sconosciuto lo fa in un’ottica nuova. Se l’uomo preistorico di fronte all’ignoto si lasciava cogliere dallo stupore, dalla meraviglia, dal mistero celato nelle cose (mistero del mondo, greci; mistero di Dio, cristiani) e che ora, per sorte, gli si rivelava, l’uomo occidentale moderno assume che il disvelamento di cui è testimone è suo merito (io soggetto). Se è suo merito, occorre compiere tutti gli atti necessari a garantirsi i frutti che questo merito comporta. “Ciò che viene scoperto, se deve diventare sicura proprietà del padrone della conoscenza, non deve perciò mai più ricadere nel nascondimento, nell’oblio precedente al quale è stato sottratto. (…) Le carte sono lo strumento universale per mettere al sicuro ciò che è stato scoperto. (…) …allora il medium bidimensionale trionfa su quello tridimensionale (i mappamondi) e ipso facto l’immagine trionfa sul corpo. (…) Chi riduce la profondità mette mano al reale” (pp. 140-142).

Ma questa presa in carico della realtà, di fatto la sua riduzione ad una percezione soggettiva, ha pericolosamente indebolito lo status ontologico dell’uomo, se così possiamo dire. Se prima l’uomo era al sicuro all’interno di un luogo, di una cultura, ora si trova a doversela fondare da solo, la cultura, a crearselo da solo, il luogo. Compito davvero improbo, che spiega il grande successo dell’individualismo: “In questo contesto il trend epocale verso forme di vita individualistiche svela il suo significato immunologico: nelle società avanzate di oggi sono gli individui – forse per la prima volta nella storia della convivenza tra ominidi – che, in qualità di latori di competenze immunitarie, si staccano dai corpi collettivi (sino a ora precipuamente protettivi) e in massa vogliono separare la propria felicità e infelicità dalla conservazione della comune forma politica” (p. 202).

L’individualismo rende immuni, ovvero esenta il singolo da obblighi e doveri verso i suoi simili. In questo senso nessun luogo è più sicuro oggi, perché non si è più garantiti circa l’affidabilità del comportamento di chi ci circonda. Sono variate le condizioni immunologiche della vita sociale. L’accelerazione in questa direzione si è registrata con l’avvento dell’industrialismo, benché tutta la fase moderna ne abbia preparato l’avvento. Com’è normale che accada, questa trasformazione è stata analizzata da letterati e filosofi, prima che essa divenisse oggetto di studio della gente comune nel periodo post-storico (Dal ’45 a oggi).

La Polis garantiva la sopravvivenza del singolo in un’epoca dominata dalla scarsità. Quanto più iniziano ad essere disponibili beni di consumo primario, tanto meno l’appartenenza ad una comunità diviene vincolante per la sopravvivenza. I luoghi stranieri iniziano ad essere occupabili dall’uomo occidentale in maniera sistematica. L’uomo occidentale porta con sé la lente d’osservazione della scienza che gli permette di descrivere senza lasciarsi inglobare. I luoghi diventano fenomeni da spiegare, non più oggetti da conoscere; e quando il luogo è spiegato, ridotto ad un punto sulla mappa, svanisce il suo senso, il mistero che ogni cosa sconosciuta porta con sé: alla globalizzazione appartiene l’avventura, alla globalità la prenotazione” (p. 205).

L’uomo moderno, mano a mano che conosce e quindi cancella il mistero, toglie dalle necessità pratiche del vivere il bisogno di spendere tempo e vita propria per impadronirsi dei luoghi. Il giro del mondo di Jules Verne è un punto d’arrivo significativo per la consapevolezza generale della corsa verso la trasformazione del mondo da oggetto duro e resistente, a fatica transitabile, ad oggetto spumoso, facilmente percorribile da uomini, oggetti, e, per finire, capitali.

“Il pensiero del flusso (telepatico, astrofisico, magnetico o monetario) rompe l’egemonia della scolastica della sostanza – anche se ci vorranno ancora quattro secoli prima che la quotidianità euro-americana compia in modo definitivo questo passaggio” (pp. 88-89). Il flusso, la fluidità. è ciò che caratterizza in modo negativo – e positivo – il periodo post moderno della storia, il periodo della storia che è finita, il nostro tempo. Un tempo cioè nel quale non è più possibile un’espressione di sé che sia definitiva, che modifichi la sostanza delle cose, che sia in altre parole non immune per l’individuo (per ridiventarlo l’individuo deve appartenere ad una comunità) e aperta all’imprevedibile. Vi può essere imprevedibilità sola là dove l’uomo è sicuro di un senso ultimo delle cose che lo garantisce. L’uomo occidentale ha esaurito i luoghi dove cercare questo senso. Ora prima di cercare ha bisogno di sentirsi garantito, ha bisogno di un’assicurazione sul fatto che i suoi atti non lo escluderanno dalla sfera del benessere: “lo spirito dell’assicurazione però, ha fatto perdere alle cosiddette società del rischio la disponibilità proprio a quel comportamento da cui prendono il nome: una società in cui de facto è proibito tutto ciò che è realmente rischioso, ovvero ciò che non viene coperto in caso di sinistro. Fa parte dell’ironia della situazione moderna che si sia dovuto vietare retroattivamente tutto ciò che era stato osato per giungere alla sua realizzazione. Ne consegue che la posthistoire rappresenta solo apparentemente una filosofia della storia: in verità essa è invece un concetto tecnico assicurativo. Sono post storiche le situazioni in cui sono illeciti gli atti storici (la fondazione di una religione, le crociate, le rivoluzioni, le guerre di liberazione, le lotte di classe con tutte le correlate promesse) a causa del loro rischio non assicurabile” (p. 134).

Invece di atti storici, atti irresponsabili ed irreversibili propri della storia, l’uomo post moderno trova sfogo al bisogno d’agire con il consumo, un atto responsabile (se garantito dalla carta di credito) e reversibile (non vi è più la sacralità del bene di consumo che caratterizzava il periodo della scarsità). Questi atti si compiono all’interno di una sfera tutelata, la cui permanenza è l’unica garanzia richiesta alla politica dall’individuo post moderno: “L’assioma dell’ordine immunologico si propaga nelle popolazioni costituite da individui auto-centrati come una nuova evidenza vitale: in ultima istanza, nessuno farà per loro ciò che essi non fanno per se stessi. Le nuove tecniche di immunizzazione (nel loro centro istituzionale: le assicurazioni private e i fondi pensione; nella periferia individuale: la dietetica e la biotecnica) vengono raccomandate come strategie esistenziali per società di singoli che hanno compiuto la lunga marcia della flessibilizzazione, dell’indebolimento della referenza all’oggetto, della licenza generale concessa alle relazioni infedeli o reversibili tra uomini (…). E’ lo stato di cose nel quale è andata smarrita per gli individui la capacità di costruire il mondo in modo esemplare” (p. 203).

L’ideale illuminista del mondo giusto è andato smarrito, sostituito dall’ideale neoliberista del mondo consumabile. La cosa che lascia perplessi però, è la continuità ideale che lega più il neoliberista che non il socialdemocratico all’illuminismo. La modernità dell’illuminismo stava infatti nella assunzione piena di responsabilità delle proprie azioni, nella chiarezza di un obiettivo da raggiungere, cosa che il neoliberista (non italiano, ovviamente) accetta tranquillamente, mentre il socialdemocratico (anche italiano), che è sempre preda dei dubbi, che non sa mai se ha fatto la scelta giusta, che fa affermazioni sempre ritrattabili, cerca di non essere mai. “Come è sempre stato e sempre sarà, per coloro che hanno fiducia nell’attacco vale la pena agire unilateralmente. I prescelti possono sempre considerare il mondo un bene senza padrone e, dove c’è la volontà di colpire, coloro che si fanno portatori della pura aggressione tengono le vittime in punta di spada. La libertà di lanciarsi avanti è l’essenza della verità” (p. 234). Anche Marx, comunque, è moderno (neoliberista?) in quanto propone una sua verità, scarsamente supportata dai fatti storici, come se fosse una verità rivelata. La lotta di classe non è, contrariamente a quanto affermato nel capitale, il motore della storia; semmai questo motore è l’accordo tra le classi, ma un accordo basato sulla physis greca di cui sopra, non sull’ermeneutica dei testi.

Chiusa questa breve parentesi (che rimanda al dibattito che ha visto coinvolti Sloterdijk e Habermas, descritto nell’introduzione del libro) torniamo al nostro Brave New World: “Questa serra gigante del relax è dedicata a un gaio e febbrile culto di Baal, per il quale il XX secolo ha proposto il nome consumismo. La cristallizzazione indica il progetto di universalizzare normativamente la noia e impedire l’irruzione della storia nel mondo post-storico” (p. 222). In Memorie del sottosuolo Dostojevskij utilizza l’immagine del Palazzo di cristallo per indicare il luogo in cui l’individuo moderno trova rifugio da un mondo che ha esaurito i luoghi verso cui fuggire. In questo luogo, generalizzato oggi a tutto il mondo occidentalizzato, il soggetto diviene compiutamente individuo rischiando di perdere i legami, sia contingenti sia storici, che danno senso alla vita: “In effetti nel mondo post-storico tutti i segni dovranno guardare al futuro, poiché in esso vi è l’unica promessa che ci deve necessariamente essere per un’associazione di consumatori: che il comfort non smetta di affluire e di crescere” (p 223).

Il bisogno di comfort è comune a tutti, inutile cercare di chiamarsi fuori. Dato che il reperimento del comfort è di necessità subordinato al denaro, al possesso di denaro, possiamo concludere dicendo che la sfera del capitale ha fagocitato la sfera del mondo. L’uomo moderno (1492-1945) ha esteso le piccole sfere nelle quali viveva fino a creare un’unica, grande sfera-mondo. Su questa sfera sostanziale ha poi iniziato a fare vorticare il capitale, a velocità sempre maggiore. Oggi è questa sfera che permette alle varie realtà locali di assumere senso nell’esperienza, ed è inutile cercare di negare quest’evidenza richiamandosi ad un’ancestrale comunità locale felice (Latouche e pauperisti vari) oppure cercando di cavalcarla auspicando lo smantellamento del localismo a vantaggio del globalismo (mercati azionari di Wall Street e teorici dell’American Consensus di Washington). La prima posizione esprime una paura di fronte ad una immaginaria perdita di sostanzialità, la seconda il desiderio di potere essere completamente individui, trascurando i vincoli umani che ci legano al comune destino dell’ignoto; occorre ricordare, con Sloterdijk, che “E’ con ciò vero in iperbole che tutto quello che è fisso e stabile svanisce, ma è falso nei fatti (…). La stragrande maggioranza degli affari, dei servizi e delle transazioni è inevitabilmente localizzata anche nel delirio di lontananza della globalizzazione. (…). Imparare a vivere significa imparare a essere in un luogo (…) L’essere nel mondo conserverà sempre il tratto fondamentale di tralasciare tutto ciò che non può essergli presente” (pp. 320-322).

Quindi l’esser-ci dell’uomo in un luogo specifico è condizione fondante dell’universalismo, e non viceversa, come vuole tanta retorica dei buoni sentimenti. Sembra una cosa da niente. ma se vogliamo continuare a sperare che la ragione possa portare, a lungo termine, ad un mondo migliore occorre che si parta tutti da un medesimo punto e questo punto può essere solo il mondo reale. Già Eraclito diceva: “Gli uomini vanno a cercare le scienze nei loro piccoli mondi, non nel mondo più grande, identico per tutti.”

La filosofia non è quindi solo un modo di vivere, ma è lo studio di uno specifico oggetto, da cui segue secondo etica il modo di vivere. Q.E.D.

 

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