Vanni Codeluppi, Biocapitalismo, Bollati Boringhieri

Vanni Codeluppi, Biocapitalismo
Bollati Boringhieri, pp. 102, euro 11.50

 

Non pago di avere ridotto a merce il tempo di lavoro, il capitalismo sta cercando progressivamente di trasformare in merce anche il tempo libero, investendo così la vita intera, diventando quindi un biocapitalismo. Il libro di Codeluppi analizza i vari elementi che tracciano la via a questa trasformazione.

“I beni di consumo nel biocapitalismo sono soggetti a un processo di incremento dei contenuti di conoscenza” (p. 59). Ciò significa che è sempre più difficile valutare un oggetto, perché il suo valore d’uso è ormai inscindibile dal suo valore sociale, in quanto la conoscenza è un elemento della socialità. La società moderna – e poi postmoderna – ha seguito un’evoluzione nella direzione dell’incremento del valore immateriale degli oggetti. Se guardiamo (cfr. capitolo 3, Logoland) la storia della pubblicità, vediamo come essa si sia progressivamente trasformata in un universo di discorso autoreferenziale. Dalla reclame diretta dell’oggetto, per renderlo noto al consumatore, si è passati all’evidenziazione di caratteristiche nascoste che lo rendessero desiderabile, per giungere infine ad un discorso chiuso, in cui la pubblicità parla di se stessa e, in maniera quasi accidentale, dell’oggetto che vuole reclamizzare. E’ diventato centrale non il valore d’uso dell’oggetto (una macchina serve per spostarsi), ma il valore sociale che esso incarna, le possibilità inespresse (ed irreali) che esso incarna: “Nella società del biocapitalismo è infatti in atto un processo di saturazione che riguarda tutti i canali comunicativi disponibili, mentre i prodotti offrono prestazioni simili e hanno ormai radici culturali e geografiche poco distinguibili” (p. 62).

Questo processo di astrazione del valore d’uso ha investito tutta la realtà, materiale e sociale. La diffusione di You Tube è uno dei sintomi di questa contingenza, per cui ciascuno può pubblicizzare se stesso anche in assenza di un reale motivo di esibizione. La possibilità che esso garantisce a ciascuno di essere visibile a tutti provoca l’annullamento del confine tra vita individuale e vita sociale, costringendo ciascuno ad assumere l’atteggiamento guardingo di che sa di essere sempre passibile di controllo e critica: “Le persone devono così imparare a vivere in una società dove ciascuno ha l’obbligo di essere sempre in rete, costantemente collegato al flusso della comunicazione ipermediale e dunque ha la necessità di imparare a essere il più possibile protagonista delle situazioni” (p. 39). Anche la politica è vittima di questa dinamica: “…c’è il rischio di vivere in una società dove gli ideali comuni e i progetti politici sono stati largamente rimpiazzati dai significati condivisi che ruotano attorno ai nomi delle marche e alle immagini della pubblicità” (p. 69, cit. Lewis – Bridger, 2000).

Nei prodotti culturali di massa è evidente questo meccanismo. Sia i film sia i libri animano le proprie situazioni ed i propri personaggi di oggetti che hanno una precisa connotazione, un marchio di fabbrica. Così il protagonista di Tre metri sopra il cielo (cfr. p. 73) indossa e usa tutta una serie di oggetti e sfoggia atteggiamenti che fanno di lui un icona per le nuove generazioni, ed anche i protagonisti di film di successo ‘alternativi’, come i Blues Brothers, adottano atteggiamenti che senza le marche ed i consumi come modello di vita non avrebbero senso : “Dunque, anche nel caso del film Ragazze a Beverly Hills l’intenzione ironica, se davvero c’era, viene fortemente indebolita dalla presenza di una dilagante melassa consumistica, con la conseguenza che questo e altri film simili per adulti grondano di allusioni spiritose e possono sembrare esagerati solo per divertire, ma per i ragazzi sono stranamente reali” (p. 94).

Il fatto di ridurre tutto a valore di scambio produce una superficializzazione della vita sociale e quindi dell’individuo che tale vita dovrebbe animare. Questo uomo nuovo che riduce, è spinto a ridurre, la sua vita a sola superficie, è biocapitalizzato. Alla fine del volume Codeluppi sostiene che questa superficialità provoca instabilità e che essa – instabilità – è il frutto dell’autonomia acquisita del valore di scambio rispetto al valore d’suo; personalmente però ritengo più logico affermare che questa forma di vita ha tratti di instabilità proprio per la indissolubilità di valore d’uso e valore di scambio. Questo stato di fatto è sempre esistito, ma in altri tempi il valore d’uso determinava l’andamento delle cose, il peso possibile del valore di scambio. La posizione di indipendenza assunta da questo valore ‘sociale’ ha determinato l’aumento di instabilità di cui parla Codeluppi.

 Detto in altri termini, non si ha autonomia concreta del valore di scambio, ma solo un’autonomia fittizia, pubblicitaria, non sostanziale. La soddisfazione del consumo di beni dotati di effettivo valore d’uso lascia l’individuo appagato e stabile, mentre il consumo del solo valore di scambio ingenera un meccanismo di replica sempre più assurdo che alla fine non conduce a nulla.

O meglio, conduce ad altra insoddisfazione, creando così la situazione ideale tramite cui il sistema di potere vigente si mantiene. Ma il fatto che il sistema abbia adottato la commerciabilità generale come metodo di controllo, potrebbe non essere altro che il segnale di una natura intima e sostanziale dell’essere umano. Se non vi è scelta possibile al di fuori del commercio – di conoscenza, di beni, di affetti – tra gli esseri umani, ben vanga la capitalizzazione della vita, a patto che di essa si faccia un buon uso, e non un cattivo scambio.

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