Jean Echenoz, Al pianoforte, Einaudi

Jean Echenoz, Al pianoforte
Einaudi, pp. 166, euro 12
Traduzione Maurizia Balzelli

Contrariamente a quanto siamo indotti a pensare non è necessario avere un modello cui uniformarsi, ciascuno di noi avrebbe il diritto ad essere se stesso senza arrecare disturbo agli altri; è però evidente a tutti che non è sempre possibile comportarsi in modo individuale, talvolta è necessario piegarsi alle convenienze. Max Delmarc, il protagonista della vicenda, grazie al fatto di essere un artista – è un pianista di successo – è uno dei fortunati cui è concesso di essere se stesso in quasi tutte le occasioni. Grazie all’abile descrizione che ci dà di lui Jean Echenoz, lo conosciamo nelle sue mille idiosincrasie, la più notevole delle quali è il ricordo incessante di una donna intravista alcuni pomeriggi in un bar trent’anni prima, Rose. La sua vita pare comunque proseguire normalmente finché, di ritorno a tarda sera per le vie di Parigi dopo un incontro di gala, viene assalito da due malviventi, e ucciso.
Siamo però solo a un terzo del libro, ed è quindi necessario che l’autore trovi un’escamotage per fare proseguire la vicenda: e Max si sveglia.
In paradiso?
Suvvia, siamo postmoderni, ormai nessuno crede più a beceraggini come inferno e paradiso, ormai tutto deve essere fatto sul calco del mondo che conosciamo, il migliore dei mondi possibili. In maniera agghiacciante perché precisa, Echenoz ci descrive questo pseudo aldilà che consiste in una zona di transito dove Max, sotto la scorta di custodi gentili ma solerti – i più pericolosi – attende il giudizio che lo destinerà in una delle due zone cui sono destinati i morti; si badi bene però che la morte è solo concettuale, perché il corpo è ancora ben desto, come scoprirà Max tra le braccia di Doris Day.
La prima zona è una specie di parco inondato di sole dove i ‘morti’ vivono in casette singole facilmente smontabili perché in loro domina l’animo nomade (paradiso?); la seconda zona è invece la cosiddetta urbana, e prevede il ritorno del ‘morto’ alla vita precedente (inferno), con qualche piccola variazione somatica ed alcune regole da seguire. Max, che diventa Paul, seguirà la sorte urbana al fondo del quale troverà la punizione per i peccati che ha commesso, pur senza sapere quali siano.
Un pregevole romanzo, che reca in sé accenni colti a Kafka, e meno colti alla letteratura di genere. La descrizione che ci viene fatta delle modalità di funzionamento della zona di transito cui Max approda dopo morto ricordano la descrizione del funzionamento dell’albergo dove Joseph K. lavora appena arrivato in America – del resto dopo Kafka ogni bella descrizione ricorda quelle pagine – ed il destino di Max è per certi versi simile, anche se meno cruento, al destino del K. del Processo. Ma c’è anche la letteratura fantascientifica, ché l’argomento dell’attesa dell’anima morta per il suo destino in una specie di zona di transito era già stato utilizzato da Philip Jose Farmer nelle entusiasmanti pagine de L’inferno a rovescio.
Un romanzo a chiave se vogliamo, metaforico ma non solo, da leggere come si ascolta un concerto per pianoforte.
Con molta attenzione.

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