Recensione: Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Bompiani

Recensione

Diego Fusaro, Minima Mercatalia

Bompiani, pp. 486, euro 13.90

Il riferimento che già dal titolo il giovane Diego Fusaro, ricercatore presso l’università San Raffaele, compie verso uno dei più acuti studi nel campo della morale del ‘900 (i Minima Moralia di Adorno), dovrebbe suggerire al lettore uno degli scopi centrali del libro: analizzare le basi etiche di un mondo, quello mercantile odierno, che dell’etica non sa che farsene. In effetti però il discorso è molto più ampio e richiede una buona dose di preparazione a chi voglia affrontarlo. In pratica in questo libro ci viene proposta una rilettura della storia della filosofia occidentale cambiando la prospettiva generalmente proposta. La filosofia non è solo, come vogliono i più, la lunga serie delle successive acquisizioni che hanno condotto l’uomo fuori dalle tenebre, ma è anche una lunga sequenza di tentativi di conciliare la società umana con le possibilità che questa scoperte svelavano mano a mano. Il nostro giovane filosofo compie un’operazione di sintesi sui lavori a lui precedenti, dimostrando una grande abilità nel lavoro di organizzazione e presentazione del materiale.

Cominciamo quindi dai greci, ovviamente. Più che al terzetto abituale (Socrate-Platone-Aristotele) Fusaro fa riferimento ai filosofi minori, presocratici. In tutti loro è vivo il problema di come insegnare agli uomini a rispettare i limiti che la natura pone, limiti che l’ingegno umano si sforza costantemente di spostare. Il rispetto dei limiti è funzionale al mantenimento di una società che non evolve e, non evolvendo, permette a tutti di sopravvivere. La scelta individuale di privilegiare l’arricchimento alla pace sociale è stigmatizzato, è un comportamento antisociale. La crematistica, la scienza dell’accumulazione di ricchezze, verrà condannata da tutti i filosofi greci e dai teologi cristiani. Bisognerà attendere l’arrivo del protestantesimo, grosso modo coincidente con la seconda fase del capitalismo, perché questo comportamento divenga un tratto positivo dell’individuo. In questa prima fase, la fase tetica, l’etica comunitaria lotta contro l’etica individualista con il sostegno fondamentale dei filosofi che vogliono scongiurare la perdita delle basi civili della società: “L’illimitatezza era riconosciuta come un pericolo (horror infiniti) e, pertanto, costantemente disciplinata tramite l’assunzione del limite come ideale regolativo dell’esistenza comunitaria. (questo) … emerge in maniera lampante se si considera che le punizioni inflitte dagli dei ai mortali si davano sempre nella forma dell’illimitatezza vissuta come supplizio” (p. 89).

Con la seconda fase del capitalismo, la fase antitetico-dialettica (fase trasformativa per l’opposizione di due classi sociali, il proletariato e la borghesia) si assiste alla progressiva distruzione della struttura comunitaria su cui l’uomo ha costruito la propria libertà (apparente) dalla natura. Se restiamo alla prospettiva del professor Fusaro, è chiaro che la creazione delle fabbriche connessa all’espropriazione delle terre, la riduzione del tempo di vita dell’uomo a tempo di lavoro per la macchina fa tutto parte di un processo unitario, un processo che conduce l’uomo lontano dalla propria natura essenziale. Queste le parole di Fusaro: ““Il presente lavoro muove dal riconoscimento della natura solidale, razionale e comunitaria dell’essere umano, considerato universalisticamente nello spazio e nel tempo. Il mondo greco ha per la prima volta adombrato questa prospettiva, sia pure in modo non universalistico, ma particolaristico (in quanto fondato su un concetto ristretto di uomo). Dal canto suo, il cosmo capitalistico segna, hegelianamente, l’ “uscita-da-sé” del genere umano, l’alienazione rispetto alla propria essenza comunitaria: esso costituisce la negazione delle potenzialità ontologiche dell’uomo, auroralmente codificate dal pensiero greco, la sua alienazione, poiché lo riduce, marcusianamente, all’unidemensionalità dello scambio e della produzione delle merci, trasformando l’uomo stesso in una merce liberamente circolante sul mercato e coartandolo a pensare il proprio presente e a progettare il proprio futuro nella sola dimensione limitativa e reificante della produzione e dello scambio eretto a orizzonte unico e intrascendibile (p. 65).

La terza fase è quella del capitalismo speculativo, che coincide grosso modo con i movimenti del ’68. A questo punto il capitalismo vede se stesso riflesso in ogni aspetto del reale poiché esso incarna la vera natura dell’uomo: “A prescindere dagli aspetti emancipatori che pure non mancarono, il Sessantotto non costituì un episodio rivoluzionario o di esodo dal capitalismo, come pure si contrabbandò; fu, al contrario, un momento interno e fisiologico alla logica dialettica del capitalismo stesso, di cui costituì il decisivo punto di passaggio verso l’odierna individualizzazione ultracapitalista, che ha rimpiazzato la vetusta forma autoritaria borghese con un fondamentalismo economico che non conosce più limiti morali e impedimenti etici al suo movimento di mercificazione universale” (p. 379).

Il libro di Fusaro, sintetizzato in queste tre fasi, cerca di collocare la filosofia in queste trasformazioni, di trovare per essa uno scopo mostrando come alcuni filosofi hanno cercato di contrastare questo sviluppo. Scopo primario della filosofia è infatti definire la verità. Se, concordemente al desiderio maggioritario, prendiamo l’esistente come indubitabile e quindi intrascendibile, non diamo all’uomo nessuna chance di trascendere i rapporti mercantili su cui si regge il tutto. Secondo Fusaro, concordemente a Fichte, Hegel e Marx, i suoi tre referenti principali, la verità non è data una volta per tutte, non sta nell’oggetto esterno al soggetto, ma diviene in accordo alle successive interpretazioni del soggetto. Con questa affermazione idealista, che pone nelle categorie del soggetto la verità, non si cade nel relativismo oggi imperante secondo Fusaro: “Sono stati soprattutto Lukacs, Adorno, Marcuse e Preve ad adombrare il carattere intrinsecamente antiadattivo dell’idealismo tedesco come essenza della coscienza infelice borghese. Se il soggetto kantiano è astorico e strutturalmente disgiunto dal mondo, l’idealismo (…) codifica invece il nesso inscindibile tra soggetto e oggetto (…) con l’obiettivo di mostrare la non oggettività del mondo oggettivo e rinvenire una connessione dialettica dietro l’oggettività apparentemente morta degli oggetti e delle istituzioni della società, in modo tale che l’oggettività di tutti gli oggetti perda il suo carattere morto e appaia come premessa e risultato dell’attività del soggetto, in una triplice rinuncia all’accettazione della morta positività del reale, alla riconversione della verità filosofica in certezza scientifica e all’immutabilità dell’esistente” (p. 281). Mi pare evidente ch! e non si tratta di un idealismo chiuso nel soggetto, non si parla di una verità per-me, ma di una verità intersoggettiva che diviene.

Il punto è che la realtà non si presenta naturalmente adattiva per l’uomo, occorre uno sforzo di pensiero per trasformarla e renderla, appunto, adatta. L’idealismo avrebbe fornito i mezzi per compiere questo sforzo, opponendosi alla riduzione individualistica e meccanicistica compiuta da quasi tutti i filosofi fino a Kant: “… il soggetto di Kant è non solo pensato, ma addirittura trascendentalmente costituito in modo solipsistico, prescindendo da ogni legame che potrebbe porlo in rapporto organico e costitutivo con gli altri membri della comunità in cui è inserito: i problemi sociali sorgono per Kant solo in seconda battuta, dalla connessione a posteriori di singoli soggetti individuali” (p. 238). Da questa frase pare lecito supporre che secondo Fusaro i soggetti sono primariamente sociali e solo in seconda battuta gnosici.

Invece per la filosofia postmoderna, conseguita alla affermazioni di Lyotard, occorre rinunciare a scopi generali, alle grandi narrazioni, per raggiungere scopi individuali, scopi consumistici: “Definisco il postmodernismo come incredulità verso le metanarrazioni” (…); abilmente nascosto tra altri racconti, il pensiero dialettico di Hegel e di Marx come dialettica di emancipazione e di trasformazione del mondo è la lettera rubata di Lyotard, l’unica vera metanarrazione da cui il pensatore francese, e con lui l’intero movimento postmoderno, aspirano a liberarsi” (p. 431).

E’ una prospettiva interessante, che offre ricchi spunti di riflessione. Questa visone socializzante della filosofia non deve comunque portare ad escludere l’apporto delle filosofie più ‘individualiste’; la velate critica che Fusaro muove alla scuola di Francoforte, che definisce un pensiero che si limita a rispecchiare l’esistente ritenendolo pessimisticamente intangibile ed immodificabile non paiono tenere conto della natura effettiva del processo conoscitivo, che è primariamente individuale.

Nella nota introduttiva ai Minima Moralia Adorno dice che il suo libro è “il tentativo di rappresentare momenti della filosofia comune dal punto di vista dell’esperienza soggettiva” (p. 8, Adorno, Minima Moralia, Einaudi). Dall’esperienza soggettiva una filosofia comune. Solo a partire da questa esperienza soggettiva è possibile – siamo nell’era del nominalismo assoluto – fondare una filosofia comune: questo è lo scopo di Adorno, una filosofia comune. Ogni grande filosofo tenta di trasformare il mondo, anche quelli che lo vedono primariamente come dato; il punto da analizzare è la direzione verso cui intendono trasformarlo, oltre all’entità che vogliono dare a questa trasformazione.

Questo sì che fa la differenza, non se sono kantiani o hegeliani.

 

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