Recensione: Christoph Turcke, La società eccitata, Bollati Boringhieri,

Christoph Turcke, La società eccitata

Bollati Boringhieri, pp. 345, euro 43

Traduzione Tommaso Cavallo

Con un lavoro di grande profondità, il filosofo tedesco Christoph Turcke ci introduce ad una lettura evoluzionistica del divenire della società umana. Riprende, per certi aspetti, le tematiche affrontate da Horkeimer e Adorno nella Dialettica e le arricchisce in senso temporale, andando alla ricerca del punto d’inizio. Tale punto è, sa va sans dire, un’ipotesi. La storia dell’umanità che ne consegue dimostra però una tale coerenza da consentire di accordare a tale ipotesi una sua validità stringente.

Iniziamo quindi con una prima citazione che penso possa chiarire lo scopo del lavoro di Turcke: “Al pari di Urano e Crono, il sistema religioso viene depotenziato dai suoi propri figli: politica, diritto, economia, scienza – chiamati anche ‘differenziazioni’ – che è costretto a produrre nel corso del suo sviluppo. Non appena questi figli sono svezzati e giungono a reggersi sui loro piedi sistemici, procedono a smentire l’esagerazione di un senso religioso universale e a ridurlo a un più modesto senso parziale, che in cambio è più difendibile” (pp. 38-39, nota). Questi ‘figli’ sono delle forme di gestione del potere al livello umano, venute sempre più alla ribalta a mano a mano che la gestione religiosa del potere scompare; questa scomparsa è dovuta al fatto che l’uomo ha iniziato a controllare la natura, a spiegarla. Attraverso la spiegazione della natura ha iniziato ad aprirsi il gruppo sociale, all’interno del quale le unità, prima indifferenziate hanno assunto una loro esistenza autonoma. Questo emergere dell’individuo, che è l’essenza della dialettica dell’illuminismo, sta ora assistendo ad una regressione: “Con ciò, quanto era cominciato un tempo come messa in vetrina del potere industriale, e che aveva la sua sede privilegiata ai piani alti del management e delle agenzie pubblicitarie, si cala fin dentro i gesti delle persone comuni, senza che neppure i grandi possano dispensarsene. Si divulga a comportamento di massa. Ma la divulgazione del potere sociale è un’arma a doppio taglio. Quanto più viene interiorizzato dall’intero collettivo, anziché imporsi puramente dall’esterno come un gioco, tanto più la sua vittoria è radicale. Ma se la sua affermazione si spinge fino al punto da omologare a sé l’intera società, allora ! non siamo a un capolinea, ma ad aprirsi è un nuovo capitolo. Il potere muta il suo carattere. Si trasforma in socializzazione coatta universale” (p. 44). Questa coazione investe l’individuo nel suo complesso ed ha la sua forma più rappresentativa nella pubblicità. Detto in termini più semplici e diretti, la necessità di esporre la propria realtà per renderla la realtà di tutti si è trasferita da specifiche agenzie che inizialmente lo facevano come attività di contorno alla vita, alla mente individuale, dirigendo in tal modo le modalità di percezione e di pensiero di ciascuno: “…la pubblicità diventa l’agire comunicativo per eccellenza” (p. 43).

“Fare pubblicità in modo ottimale per un prodotto esige molto di più che limitarsi a tesserne le lodi: significa allenare un intero sistema percettivo a una modalità in cui il prodotto esaltato ottenga saldamente il suo posto” (p. 31). La nostra realtà quotidiana è a tal punto pervasa dalla pubblicità che noi nemmeno ce ne rendiamo conto, ma gli oggetti che costituiscono un senso parziale del mondo ci vengono totalmente imposti dall’esterno, soprattutto dalle immagini nelle quali siamo immersi. Se questo è sempre accaduto, è pur vero che in tempi passati accadeva solo nel particolare mentre ad un livello più generale resisteva un senso ultimo delle cose. La mia immagine del particolare era un limite percepito come tale. Ora, in questa postmodernità priva di fondamenti, il senso ultimo è scomparso e quindi i sensi parziali diventano i sensi ultimi, senza però che ciò sia possibile, in sé: “Chi dice apparenza può girarsi e rigirarsi come vuole; non può fare  a meno di presupporre qualcosa di cui l’apparenza è apparenza” (p. 37, nota). Siamo a quello che Adorno chiamava la vittoria del nominalismo, ovvero il fatto che l’attività presupponente è a tal punto consapevole che l’unico cosa importante diventa la plausibilità del prodotto finale della supposizione. A fortiori, oggi siamo arrivati al punto che l’elemento finale non deve nemmeno più essere plausibile, basta che sia percettivamente emergente, che cioè spicchi nella marea montante di oggetti che reclamano l’attenzione.

L’attenzione viene assegnata alle stimolazioni esterne in maniera perlopiù reattiva, ovvero come una risposta a, per il semplice motivo che il flusso di stimoli è talmente pervasivo da non lasciare il tempo alla riflessione di svilupparsi: “Il rappresentare, il pensare, l’esprimersi – le più eccellenti tra le attività umane – si trasformano in semplici funzioni della vendita delle merci, vengono reificate, come suona il concetto, ripreso da Lukacs, che designa il fenomeno” (p. 42). Si può dire, in termini più semplici, che nel processo dialettico tra soggetto e oggetto, si è persa la capacità di distinguere nettamente tra i due, ovvero che tutto è diventato soggetto.

I due termini della dialettica hanno una loro indipendenza lampante: il soggetto pensa e l’oggetto stimola. Ma, se ci si pone in un’ottica sistemica, in cui non c’è la ricerca genetica di un prima (causa) e un dopo (effetto) perché tutto agisce in contemporanea, diventa impossibile andare alla ricerca di un senso, che non sia una pura e semplice prospettiva sulle cose: “Si impone subito un problema di coordinamento che accompagna la teoria sistemica come l’ombra la luce. Se i notiziari televisivi assumono l’aspetto della pubblicità e la pubblicità l’aspetto di notiziari, come stanno le cose? Evidentemente si è verificato un errore sistemico. Determinati elementi di un sistema si sono smarriti in un altro e l’altro è stato capace di captarli nella sua sfera operativa (…). Anche stabilire se il cane scodinzoli con la coda o la coda scodinzoli con il cane dipende dall’osservatore; tuttavia è possibile decidere quale prospettiva sia quella più calzante. (…) Pensare in termini sistemici significa palesemente non riuscire a pensare in termini genealogici nei punti decisivi” (pp. 35-36).

Dunque a questo punto iniziamo seguendo Turcke una genealogia della percezione, che ci condurrà alla genealogia del pensiero, che ci permetterà di capire l’emergere di una società eccitata. In altre parole, cercheremo di riprendere le tematiche affrontate da Kant nelle prime due Critiche, anche se non in termini esclusivamente strutturali ma per lo più genealogici. Andremo quindi ad esaminare le tappe di formazione del pensiero, cercando alla fine di trovare i mezzi con cui il pensiero possa restare libero e responsabile.

“Produrre dati, trasmetterli, riceverli diventa l’attività per eccellenza. La coazione ad essere impiegati si specifica nella costrizione a trasmettere. Ma questa diventa una espressione vitale esistenziale. Trasmettere significa essere percepiti: essere” (p. 51). Se l’essere, che per la filosofia è il fondamento, fonda se stesso sull’essere percepito, la nostra società è chiaramente priva di fondamenti, pura superficie che per continuare ad avere una visione di sé ha bisogno di essere costantemente, ed artificialmente, eccitata. Questa eccitazione è legata alla possibilità costante di essere tecnologicamente altrove. Ovviamente l’essere fisico non può spostarsi a piacimento qua e là, ma l’esserci potenziale si; ma è una potenzialità che non ha nulla in comune con la dialettica aristotelica tra atto e potenza, per cui ciò che è in atto presuppone una potenza in essere; è un esserci fragile e illusorio, che pone definitivamente il soggetto in funzione della tecnica che lo rende in grado di emettere: “Tuttavia, se la tecnica penetra così a fondo negli individui che chiunque, bene o male, deve trasformarsi in una sorta di emittente di se stesso, il suo irradiamento personale viene sopraffatto da un irradiamento via etere che intacca direttamente lo stesso fenomeno dell’esserci. Al ‘ci’ dell’esserci, si può ben dire, da Platone a Heidegger, apparteneva inalienabilmente il qui e ora: il suo essere fisicamente presente in un determinato ambiente. Ma che cos’è che costituisce il ‘ci’ di una emittente? E’ chiaro che per trasmettere l’emittente deve pur trovarsi da qualche parte, ma è assolutamente indifferente dove; l’importante è che funzioni. L’emittente è &lsq! uo;ci’ sino a che è ‘in onda’; nell’etere, su frequenze che rendono possibile la sua ricezione. Il qui e ora della stazione emittente, invece, è ciò che resta quando non ‘ci’ è più: il suo relitto fisico. (…) In breve, l’arguzia ontologica di un’emittente consiste nel fatto che il suo ‘ci’ è svincolato dal qui e ora e si è trasfigurato in un ‘ci’ etereo, che può essere ricevuto ovunque su una certa area, ma che non può essere afferrato da nessuna parte. Un ‘ci’ senza qui e ora e un qui e ora senza un ‘ci’ sono delle assurdità, ma queste assurdità esistono. Esse sono il prodotto di una dereificazione universale” (pp. 51-52). La reificazione, come spiegato sopra, è la trasformazione di un’attività spirituale in cosa; la dereificazione sarà la perdita dell’oggetto che ha ereditato lo spirito.

Quindi viviamo in un mondo privo di spirito, e ciò è grave, e privo di oggetti, e ciò è drammatico.

Alle origini della filosofia la sensazione era una forma non raffinata di percezione. Si diceva che la sensazione era il dato empirico grezzo, che poi le categorie percettive provvedevano a raffinare. Eravamo con ogni evidenza in una situazione in cui il pensiero aveva la funzione di guidare la sensazione verso il significato. Oggi invece sensazione è ciò che emerge rispetto alla stimolazione perenne che confluisce sul soggetto dall’esterno, soprattutto attraverso i massmedia. Benché, com’è ovvio, sia sempre l’intelletto che riflette sul dato empirico, il dato empirico impone se stesso e l’intelletto ha scoperto che può fare a meno di impegnarsi nella riflessione. Questo dato di fatto è il punto d’arrivo, temporaneo, di un processo che prende piede nel rinascimento italiano. Il Cusano è il primo filosofo che attribuisce importanza alla rarità a prescindere dalla conoscenza necessaria per capire questa rarità: il sensazionale si sgancia dal razionale: “Dove, dunque, il raro comincia a valere come sorprendente proprio per la sua rarità, e non perché funziona in base a leggi sconosciute, percezione e attenzione ricevono un orientamento che ha la struttura di un appetito che si intensifica da sé. La teoria sistemica parlerebbe di retroazione o di feedback. Proprio perché il nuovo e il raro si logorano facilmente, l’appetito per nuove rarità e altre novità diviene insaziabile. Le rarità diventano per l’intelletto ciò che il cibo è per lo stomaco; esso ne ha bisogno per ricostituirsi” (pp. 103-104). Dopo questo avvio con il rinascimento italiano, arriviamo ai filosofi inglesi. Già con Locke abbiamo una rivalutazione della sensazione, seppure, con cautela tenuta in secondo piano. E’ a Barkley che dobbiamo invece il riconoscimen! to della preminenza della sensazione pura sul prodotto dell’intelletto. E’ nota la sua idea dell’albero che cade nella foresta e, se nessuno l’ascolta, non produce suono. Questa idea simboleggia alla perfezione “…un sistema completamente delirante, ma in questo delirio c’è più di quanto Berkley stesso abbia notato. Con sicurezza sonnambolica esso lascia balenare gli essentials di un mondo ridotto alla sensazione. Che cosa esiste, se non esiste altro che sensazione? (…) Locke aveva riservato alle idee superiori una capacità propria: la riflessione. Berkley invece rovescia il punto di vista. No, egli sostiene, non sono le rappresentazioni e i pensieri astratti a essere i più prossimi a Dio, bensì le percezioni sensibili elementari. La sensazione autentica è quella che non è in mio potere, che mi si impone anche contro la mia volontà e proprio così annuncia il potere superiore dal quale mi viene impressa: Dio. Ciò che chiamiamo rappresentazione e pensiero è semplicemente una pallida eco autoprodottasi del potere della travolgente sensazione originaria” (p. 118). La natura elementare, non ulteriormente scomponibile della sensazione è il velo dietro cui si nasconderebbe l’artefice di tale sensazione, ovvero Dio. Una spiegazione del genere cade nelle critiche cui sono passibili tutte le prove che si richiamano ad una causa ultima; ma, cionondimeno, Berkley aveva inconsapevolmente colto una dimensione necessaria della nascente società tecnologica, ovvero il bisogno dell’uomo di essere rassicurato circa la sensatezza delle proprie azioni, un bisogno che rimanda ad antichissimi riti attraverso i quali l’uomo ha imparato a sviluppare l’intelletto.

Filogeneticamente è assai arduo spiegare la formazione del pensiero, spiegare cioè come sia accaduto che, tra i miliardi di neuroni che costituiscono il cervello, sia stato possibile il fissarsi di connessioni atte a rappresentare la realtà; e a rappresentarla in modo costante, soprattutto, perché solo così tali connessioni si potevano rivelare utili. Kant chiama questa capacità ‘trascendentale’ e la fisiologia moderna non è andata un passo avanti rispetto a Kant per quanto riguarda le spiegazioni del perché: “non è assolutamente concepibile come l’uomo abbia potuto cominciare la costante ripetizione richiesta da un simile esercizio, se non sotto una violenta coazione a ripetere” (p. 145). Sotto l’effetto della stimolazione sensoriale che ha iniziato a farsi sentire, provocando spavento, l’uomo ha sorprendentemente risposto accettando, attraverso rituali, questa stimolazione. La mente ha iniziato a formarsi non possedendo delle categorie – nel caso sarebbero categorie ab aeterno come in Kant – ma respingendo una stimolazione per inquadrare la quale non disponeva di categorie. Attraverso la ripetuta, coatta, esperienza di allontanamento dagli stimoli l’uomo ha potuto inquadrare questi stimoli entro a delle categorie: la conoscenza è costruzione di strutture. La capacità mnemonica non è altro che il frutto della capacità di ricordare il mezzo di salvezza dalla sovrastimolazione ambientale: “Secondo ogni apparenza la sua (dell’ambiente) violenza traumatica non è solo oggetto della memoria, ma anche ciò che ha fondato la memoria stessa. (…) Le cose, solo se ripetute – così diciamo noi oggi – ci si imprimono nella mente. All’origine era il contrario: solo mediante ripetizione ci si poteva sbarazzare di un ecce! sso di stimoli insopportabile” (pp. 152-153).

“Svincolarsi dal terribile riproducendolo, anziché fuggire da esso, non è nient’altro che una forma di approvazione. Ma approvare il terribile non è nient’altro che spezzare l’interpretazione animale del mondo” (p. 154). L’uomo è dunque uscito dall’animalità accettando il terribile implicito nel naturale. Ha cercato poi di padroneggiarlo attraverso riti che mimassero le esperienze più terrificanti; indi, ha circoscritto i luoghi entro cui tali esperienze potevano essere compiute e designato le persone atte a compiere tali esperienze. Infine ha ridotto tali esperienze e tali persone in equivalenti, ovvero in denaro. Si è così compiuta la completa fungibilità delle esperienze umane di cui parla Adorno, la completa traducibilità dell’esperienza umana nell’equivalente economico. Il passaggio dalla fase della pura paura alla fase del rito è avvenuto tramite la nominazione del fenomeno, ovvero attraverso l’attribuzione di un nome alla potenza terrificante che l’uomo cercava di contenere attraverso la ritualità: “Il mostruoso, in quanto riceve un nome, deve trasformarsi in essenza” (p. 176). L’essenza diviene così, per la nascente coscienza dell’uomo, ciò che sta a fondamento della sensazione; in breve l’uomo dimentica la natura in toto sensibile delle sue categorie semiologiche. Questa dimenticanza è fondamentale. Solo attraverso di essa l’uomo ha potuto investire della sacralità una sfera ampia della realtà. In questo modo la parte garantita dal sacro, assicurata, ha potuto essere avvicinata e, gradualmente, appresa. Da qui alla televisione è solo questione di tempo: “… l’origine del sensorio umano non è né religiosa né profana; il sacro non &egr! ave; né una reale potenza originaria né una proiezione di cui si sarebbe potuto fare a meno: è invece una cifra indispensabile. Formazione del sensorio specificamente umano e formazione di questa cifra sono stati lo stesso processo. Esporre, rappresentare, concepire qualcosa – all’inizio attività inseparate – dapprima significò difendersi, proteggersi, porsi al riparo da questo qualcosa. (…) L’antagonista del sacro inizialmente lavora come medium della sua produzione” (pp. 184-185).

Detto in altri termini, più comprensibili, la ragione, l’antagonista del sacro, è inizialmente ciò che ha richiesto la formazione del sacro, proprio per avere uno spazio delimitato entro cui esercitarsi e stabilizzarsi nelle connessioni nervose dell’uomo. La ragione è nata insieme al sacro. E, attraverso di essa, il sacro che era inizialmente il terrificante, è stato gradualmente assimilato e ridotto ad un’attività commerciale al pari delle altre attività umane. Occorre però chiedersi se questa assimilazione abbia condotto all’eliminazione del terrore che appartiene alla stimolazione sensoria del reale. La risposta è ovviamente negativa, poiché la vita è, nella sua essenza un’assimilazione; e ogni assimilazione è imposizione all’Altro delle proprie categorie. In questo senso la beatitudine cristiana è la realizzazione dell’utopia, la creazione in base alla speranza di un luogo in cui non vi siano rapporti di sopraffazione ma solo eterna e beata contemplazione della perfezione che non evolve: e dunque non minaccia di assimilarti (= annichilirti).

Il mondo dell’immagine contemporaneo è, parzialmente, questa utopia. Con le prime lastre impresse chimicamente l’uomo ebbe l’intuizione della possibilità di porre qualcosa al di fuori del flusso costante della realtà che tutto trasforma; “Anche se tutti sanno che non si acquista la beatitudine con l’essere fotografati, l’enorme successo commerciale della fotografia in miliardi di foto si nutre di questa elementarissima lusinga. Avere davanti a sé in fotografia se stessi, i propri cari, il proprio ambiente significa che il qui e ora che vedo qui non è un qui e ora qualsiasi, ma un istante conservato, separato da tutta l’innumerevole massa di istanti trascorsi inavvertiti; in breve è qualcosa di particolare. Anche se non è stato fissato perché si trattava di un istante particolare, diventa indubbiamente qualcosa di particolare per il fatto di essere stato fissato” (p. 199).

L’esserci, l’avere un’immagine, una superficie da esibire diventa più importante dell’essere, della sostanza che un tempo sola permetteva di arrivare alla possibilità di esibire una superficie.

Trasferire la realtà dalla sfera dell’essere alla sfera dell’esserci ebbe un fondamentale peso per l’attività economica in generale; ogni cosa, uomo compreso, doveva manifestarsi con evidenza, sempre più evidenza, per potere arrivare ad esistere, ad esserci. Questa generalizzazione provocò il passaggio, o meglio, la fusione, dei momenti sacri con i momenti profani. I sacrifici rituali dell’uomo arcaico divennero sempre più insostenibili, proprio a causa della concezione di un’equivalenza possibile tra cose di ambiti diversi: “Quanto più diventa insopportabile per gli uomini offrire come vittime i loro simili, tanto maggiore diventa la necessità di sostituire questo dono con un dono più tollerabile, più equivalente. La coazione a ripetere comincia a manifestarsi come coazione a sostituire” (p. 222). Ovviamente questi processi di sostituzione richiesero tempi lunghissimi per compiersi, soprattutto essendo ancora l’uomo sotto lo scacco del terrore del mondo naturale; mano a mano che queste pratiche si consolidavano, l’uomo iniziò ad invertire la molla che l’aveva messo in moto; si passa dal dominio del principio di morte (a cui Freud è arrivato a riconoscere importanza al termine della sua vita teorica) che è stata la reazione naturale all’eccedenza della stimolazione sensoriale, alla prevalenza del principio del piacere.

Una società in cui il principio del piacere ha sconfitto l’istinto di morte è una società radicalmente diversa da quella da cui è nato l’uomo. Con l’avvento delle fabbriche ed il mutamente nelle condizioni di vita e di lavoro di larghe fasce della popolazione, si ebbe una prima introduzione commerciale di sostanza atte a permettere di sopportare le disumane condizioni di vita in cui il ‘proletariato’ era precipitato: nel 1600 fa la sua comparsa nelle bettole dell’Inghilterra l’acquavite, un nuovo e dannosissimo liquore che , a differenza della birra, ha la capacità di stordire molto più velocemente il bevitore. Non che tale liquore fosse sconosciuto. Fa la sua comparsa intorno al 1100 e, insieme ad altre sostanze inebrianti, resta limitato ad un uso in occasioni particolari, sacre. Per motivi di omeostasi sociale, attorno al 1600 l’ebbrezza ed il sacro, fino ad allora sempre coincidenti, si divisero. Divenne possibile inebriarsi in situazioni non-sacre e, in breve, in ogni occasione. Anche questo fa parte del più generale processo generativo della società eccitata: “Ciò che oggi chiamiamo tossicodipendenza compare solo con la separazione tra festa ed ebbrezza. (…). Come nella Bibbia Dio fece l’uomo a propria immagine, così nell’età moderna lo scatenamento del mercato si riprodusse, per così dire, nello scatenamento del consumo di sostanze inebrianti” (pp. 257-259).

Oggi siamo però giunti in una fase ulteriore rispetto al marxismo prima maniera. Se già la teoria del valore delle merci come rispecchiamento del valore d’uso necessario a produrle si rivela inadeguata perché tralascia la componente ‘antropologica’ ineliminabile nell’attribuzione di valore, un’ulteriore indebolimento della previsione marxiana l’abbiamo per il fatto che le condizioni di vita delle classi oppresse non hanno condotto alla rivoluzione, bensì ad un ulteriore sviluppo dell’apparato oppressivo. Con ogni evidenza la macchina degli shock sensoriali costantemente applicata su ognuno toglie la capacità di percepire in modo critico la funzione alienante di tali shock: “L’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali ha il suo concretamento cinematografico nell’incessante susseguirsi di shock audiovisivi. (…) Che cosa succede se la presenza di spirito necessaria per parare produttivamente i suoi shock viene resa impossibile proprio da questi shock?” (p. 281). La nostra società eccitata impedisce di percepire la stessa possibilità di una società non eccitata; detto in altri termini, come già anticipato da Jameson nel suo Postmodernismo, al di fuori del paradigma postmoderno non è possibile alcun discorso che proponga un paradigma diverso. Tale univocità di paradigma rischia di impoverire tutte le possibili esperienze estetiche dell’individuo. La fusione di sacro e profano ha per conseguenza la perdita del tempo necessario alla concentrazione individuale sul sé, come luogo isolato dal flusso continuo del mondo. Si fa sempre più fatica ad essere in mancanza dell’esserci, oltre al fatto che tale essere, in quanto assoluto, non ha nessuna rilevanza per il mondo.

La ricetta finale proposta da Turcke è elementare, oltre che già letta, restando con ogni evidenza l’unica valida e quindi l’unica che un filosofo possa proporre: “In primo luogo bisogna pensare alla lotta quotidiana assolutamente non spettacolare contro la dipendenza” (p. 329). E’ chiaramente una soluzione individuale, proprio per quanto detto prima circa l’inefficacia sociale di paradigmi che non adottino l’eccitazione dello stimolo come punto di partenza. Eppure questa soluzione è oggi di gran lunga più praticabile, in numeri assoluti, di quanto non fosse al tempo di Marx e Freud. E quindi, anche al termine di questo ponderoso saggio, non possiamo non sposare la tesi finale della Dialettica adorniana, che era anche la speranza di Benjamin, ovvero che la parte ragionevole dell’umanità lavori come un freno d’emergenza sulla restante parte, per permettere a tutte e due di vivere in un mondo migliore.

 

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