Recensione: Giovanni Mazzetti, Contro i sacrifici, Asterios

Giovanni Mazzetti, Contro i sacrifici
Asterios, pp. 97, euro 9
     Il professor Giovanni Mazzetti sostiene una tesi molto interessante per spiegare e, da parte di noi profani, cercare di capire i motivi dello stallo in cui ci ha precipitato una crisi economica scoppiata in maniera manifesta quattro anni fa. A questa crisi l’Italia ha risposto in maniera politicamente indecisa – e non poteva essere altrimenti vista l’incapacità con cui il governo è stato condotto fino al finire del 2011 – per abdicare il governo politico al governo dei tecnici, nella supposizione che dei tecnici possano guidare la polis meglio dei politici. Anche etimologicamente possiamo notare l’errore insito in questo ragionamento. A ciò si deve aggiungere che se i tecnici fossero preparati sull’esistente ci sarebbe qualche speranza; Mazzetti invece sostiene che Monti & c. non sono altro che la rimanenza del vecchio ceto dirigente che usa categorie risalenti alla prima rivoluzione capitalista per cercare di affrontare una crisi che con quei tempi non ha più niente da spartire. In particolare l’idea, montiana e, apparentemente, condivisa dal largo pubblico che solo attraverso i sacrifici sia possibile far ripartire l’economia, è un evidente nonsenso.
     O meglio, significa ricondurre l’economia, che funziona in base a leggi sociologiche in buona parte comprensibili, all’esoterica sfera del sacro, le cui regole sono incomprensibili e controllate in genere da stregoni. Il sacrificio (sacer – facere) di tutte le classi sociali in maniera uguale dovrebbe permettere alla crisi, magicamente, di risolversi; questo perché il denaro, il feticcio assoluto che riassume in sé tutte le contraddittorietà della società capitalistica, verrebbe in questo modo tesaurizzato e, dal chiuso dei forzieri dei ricchi – per i quali ovviamente sacrificarsi come l’operaio ha un significato proporzionale ben diverso – permetterebbe all’economia di ripartire. Ma questo modello interpretativo ereditato dalla prima rivoluzione industriale, non funziona più. La ricchezza di una nazione non è determinata dall’oro che ha nei forzieri (dei ricchi) ma dal lavoro che al suo interno si svolge: più lavoro, più ricchezza.
      A questo punto è necessario porre in evidenza come spesso l’interesse individuale e quello sociale non coincidono, come invece vogliono farci credere gli apologeti del capitalismo. Se non è spinto da regole statali e, soprattutto, da una diversa prospettiva sociale, il capitalista conserva, tende cioè a riproporre l’esistente tale e quale, visti gli ovvi vantaggi che la sua posizione comporta. Questa tendenza non è però propria del solo capitalista, investe tutti. Soprattutto di fronte ad una situazione di crisi, il famigerato uomo della strada tende a cercare ciò che conosce, che gli ha dato sicurezza, anche se la strada per raggiungerlo appare impercorribile. Non è una strada praticabile quella ove lo stato si astiene completamente dal fare investimenti, anzi diminuisce quelli che già faceva, lasciando ai privati il compito di creare lavoro, e quindi ricchezza. E’ una strada già praticata in passato e che ha già portato risultati disastrosi. In opposizione ad essa Mazzetti sposa in toto il modello keynesiano, che vede nell’incremento della spesa pubblica, una spesa pubblica mirata e concertata, l’unico mezzo per mantenere in continua trasformazione il sistema economico. Perché il nostro sistema non può più sostenersi sull’immobilismo, necessita appunto di una continua spinta al movimento. Solo una legge pubblica e non l’iniziativa privata può garantire questa continuità. Eppure il tabù contro la spesa statale è oggi accettato ed anzi approvato dalla maggior parte dell’opinione pubblica.
     A questo punto dobbiamo però riconoscere che siamo in Italia e che qui la spesa pubblica ha avuto spesso e volentieri caratteri di arbitrarietà ed aleatorietà tali da scoraggiare chiunque dal sostenerne la necessità. Non ci resta quindi che sperare che la saggezza del resto del mondo possa spingerci fuori da questa crisi. E quindi si torna a quanto dicevo prima. La crisi è sì un problema economico ma, prima ancora, culturale. Le crisi del capitalismo si manifestano periodicamente perché le modalità di funzionamento dell’essere umano sono tali da non consentirgli appieno l’uso degli strumenti che oltre due secoli di illuminismo hanno messo a disposizione. Solo attraverso l’uso della ragione è possibile scavalcare il ruolo di feticcio che il denaro ha assunto nella società. Di fatto questo feticcio ha subordinato a sé la possibilità per l’uomo di fare, proprio l’elemento che rende l’uomo umano. Il fare è bloccato dalla mancanza di denaro. Attraverso questa impostazione ricadiamo ad un livello di funzionamento preilluministico, situazione che per formazione culturale molti di quelli che comandano non disdegnerebbero, anche se a parole mai accetterebbero questa analisi.
     A parole ci chiedono solo di fare dei sacrifici.

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