Recensione: Frank Furedi, Fatica sprecata, Vita e pensiero

Frank Furedi, Fatica sprecata

Titolo orig. Wasted. Why Education isn’t Educating

Vita e Pensiero, pp. 252, euro 18.50

Traduzione Stefano Galli

Il nuovo, interessante saggio di Frank Furedi è in buona sostanza riassumibile con una frase che compare più o meno a metà libro: “…la crisi dell’istruzione è spesso il sintomo dell’incapacità di una società di raccontarsi in modo sensato” (p. 149). I motivi della perdita di senso della nostra società trascendono l’intento di questo libro, è ovvio. Ciò che interessa a Furedi è osservare come questa perdita di senso influisca negativamente sulle pratiche educative. Andiamo quindi con ordine all’esposizione delle idee di Furedi, premettendo che il suo è un discorso molto specifico sulla situazione educativa del Regno Unito; peraltro, come è il caso di ogni discorso che coglie nel segno, dallo specifico è facile trarre deduzioni al generale.

“L’appello a personalizzare l’apprendimento non nasce dal timore che metodi di insegnamento ‘impersonali’ ostacolino il buon funzionamento della scuola, ma dalla speranza che questa pratica aiuti a risolvere un gran numero di questioni estranee alle aule scolastiche” (p. 43). Che l’educazione debba essere personale è un palese controsenso rispetto all’oggetto di cui questa disciplina dovrebbe occuparsi, ovvero lo scibile umano, che non è in sé personale. Quanto più si sale nel livello di istruzione, tanto meno particolare essa dovrebbe essere. E’ ovvio che il bambino in prima elementare va trattata in un certo modo, il ragazzo in quinta liceo in un altro. Scopo dell’istruzione dovrebbe essere, è almeno stato fino a tempi non lontani, quello di permettere all’individuo di conoscere realtà a lui lontane, che solo attraverso l’azione dell’educatore possono essergli rese presenti. Questo scopo è venuto esaurendosi nel tempo, almeno come idea di scopo raggiungibile. Infatti oggi alla scuola sono attribuiti compiti che spesso esulano dalle sue competenze. Rendere felice, tranquillo e sicuro di sé l’alunno non è, in prima istanza, il compito della scuola. Questo è un compito che appartiene alla costruzione sociale dell’individuo. Se all’interno della scuola inizia a farsi strada l’idea che suo scopo primario non è, poniamo, la conoscenza della quarta declinazione ma che l’alunno non si senta in ansia davanti al professore mentre declina il sostantivo, tutta la struttura va a pallino. Questo è il primo versante del problema dell’istruzione, il declino della preminenza dell’oggetto (che è anche il problema della società in toto, si badi bene).

Vi è però anche un secondo aspetto da prendere in considerazione, ovvero l’ingerenza di idee e pratiche che con l’istruzione non hanno niente a che vedere; vi è, in altre parole, un interesse pragmatico della società a produrre non persone consapevoli, bensì abili manipolatori di oggetti: “Molti esperti sostengono che quello che i bambini e i giovani imparano a scuola non è in grado di prepararli a una vita da adulti. (…) Uno sfortunato sottoprodotto della svalutazione dell’educazione classica è che il contenuto intellettuale dell’istruzione diventa negoziabile” (p. 48). La negoziabilità dell’istruzione fa si che le scuole intese come strutture si preoccupino in primis a fornire ai loro studenti programmi di studio che non li pongano in difficoltà. Eppure, è chiaro che solo attraverso la risoluzione delle difficoltà un individuo può crescere.

Per immergere un individuo giovane in una situazione colma di difficoltà, occorre che l’adulto eserciti su di esso una qualche forma di coercizione, non ci si scappa. Questa coercizione è attuata dagli adulti tramite il loro incarnare una figura di autorità. La contrattabilità dell’oggetto dell’istruzione indebolisce con ogni evidenza la figura del docente. A questo indebolimento, ormai acclarato, la teoria dell’istruzione ha risposto identificandosi quasi totalmente con la pedagogia, che altro non dovrebbe essere che una tecnica circa la trasmissione dei contenuti, che andrebbero invece stabiliti a monte.

“Ora, sviluppare tecniche pedagogiche atte a motivare i bambini è un obiettivo giusto e importante, ma troppo spesso mettere al centro la motivazione ha portato a sopravvalutare metodi a volte presi di peso dalla psicologia, e ha distratto autorità ed esperti dal riflettere sul tipo di istruzione cui intendono motivare i bambini. (…). Storicamente, fare della motivazione la sfida decisiva per la scuola ha coinciso con la nascita dell’istruzione secondaria di massa negli Stati Uniti del primo Novecento. (…). (Da allora) le discussioni sull’istruzione hanno finito per ruotare intorno a un nuovo, supremo metro di successo: la capacità di non perdere per strada gli iscritti” (pp. 95-96). Abbiamo appena descritto il percorso storico – confermato dalla citazione con cui si apre la recensione – che ha portato al noto problema dell’inclusione, ovvero all’atteggiamento di effettiva negazione delle differenze individuali a partire dal quale non è proponibile né pensabile l’esclusione di alcuno dal percorso formativo completo. In tal modo, però, si ottiene un generalizzato livellamento verso il basso degli standard previsti per il conseguimento dell’attestato di formazione. Molto spesso, sostiene Furedi, dietro l’attestato non vi è più una formazione approfondita né un desiderio verso la conoscenza, ma una semplice abilità a fornire le risposte previste dagli ‘addestratori’: “Come ha osservato una ricerca, “sotto l’ambigua etichetta della centralità dello studente, delle sue scelte e del suo contare di più, le aspirazioni progressiste hanno finito col dare la priorità ad obiettivi di natura gestionale” (p. 104).

La ‘centralità dello studente’ è l’effetto indiretto della perdita di autorità del docente, oltre a rappresentare una subdola cessione di responsabilità nei confronti della parte meno consapevole del rapporto didattico. Attraverso la centralità dello studente trova realizzazione la profezia che viviamo in una società preda della più frenetica spinta innovativa della storia dell’uomo, una società in cui niente è più fisso, una società in cui l’hanno vinta i nuovi guru dell’educazione, che Furedi ribattezza ironicamente neoeraclitei. A giustificare queste affermazioni – che lo studente deve essere il centro – dei teorici dell’approccio soft all’educazione non c’è però alcun dato verificato, solo un affastellarsi di dichiarazioni pleonastiche da parte di politici interessati solo a scaricare i problemi altrove e studiosi di metodi pedagogici interessati a fare sperimentazione.

Tutto questo può comunque essere inquadrato nel generale aumento di controllo sociale esercitato sulle persone. Attraverso lo spostamento del focus dell’istruzione dalla materia di studio agli interessi del soggetto si ottengono persone meno centrate sulla realtà e più infantili, più concentrate sul monitoraggio dei propri bisogni. L’educazione, che nasce come strumento di democrazia volto a rendere disponibili a tutti gli strumenti per interpretare la realtà, si riduce a strumento – spesse volte politico – per fare passare una specifica visione della realtà: “C’è una differenza fondamentale tra socializzazione e ingegneria sociale. La socializzazione non è riducibile alla trasmissione di qualunque valore alla generazione più giovane: essa procede trasmettendo valori già radicati nelle generazioni adulte di una società. Al contrario, l’ingegneria sociale si propone di promuovere valori che al momento non sono radicati, ma che i suoi sostenitori vogliono far attecchire ritenendoli indispensabili al progresso” (pp. 144-145).

L’ingegneria sociale è diventata col tempo un corpus unico che si muove verso un ben definito obiettivo, la produzione di individui felici. Questa ideologia è stata completamente introiettata dal pubblico dell’istruzione (politici, genitori e insegnanti) dando luogo alla generale perdita di autorevolezza che caratterizza l’istituzione scuola: “…l’idea che gli studenti non possano apprendere se non sono contenti, hanno fiducia in se stessi e possiedono un certo numero di altre abilità sociali è la prova evidente dell’adozione di una ben precisa etica dell’insegnamento: prima la psicologia, poi l’istruzione” (p. 215). L’autorevolezza deriva in primis dalla capacità di somministrare dei contenuti. Una scuola che si fa carico del gradiente di soddisfazione dei suoi alunni perde di vista la sua ragion d’essere.

La scuola non è responsabile dell’apparente infelicità che circola nel mondo né della cura al livello del singolo che si suppone necessario apportare: “E’ stato Immanuel Kant a far notare che rendere un uomo felice è tutt’altra cosa da renderlo buono, e la storia ci ha insegnato che una vita ben vissuta non necessariamente è anche una vita allegra” (p. 227). Confondere le acque in modo che la felicità possa essere confusa con il senso delle cose ha come unico risultato produrre persone infelici che non colgono il senso di quello che gli capita.

Il titolo italiano rischia di trarre in inganno. Insegnare non è fatica sprecata, se insegnare è inteso come trasmissione di sapere: è attraverso il sapere che è possibile trasformareil mondo, che è il compito che gli adulti dovrebbero imporre ai giovani, anche a scapito della propria tranquillità: ogni altro scopo (terapeutico o peggio eudemonico) viola la ragion d’essere dell’istruzione. Furedi, consapevole di questo, dedica il libro a quegli insegnanti che chiudono le loro aule e, insensibili alle pressioni, perseguono la strada del sapere attraverso quello che chiama ‘un insegnamento segreto’.

La loro non è fatica sprecata.

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