Recensione: Aldous Huxley, Dopo molte estati muore il cigno, Cavallo di Ferro

Aldous Huxley, Dopo molte estati muore il cigno
Cavallo di Ferro, pp. 333, euro 19
Traduzione Catherine McGilvray
Il desiderio di sconfiggere la morte è, direi, connaturato all’uomo. La religione non è altro che una delle forme che questo desiderio ha storicamente assunto. L’affermazione dello spirito del capitalismo si può osservare attraverso la trasformazione storica che questo desiderio ha gradualmente assunto. Inizialmente il desiderio di non morire è garantito a tutti, attraverso la creazione di un regno ove il corpo, da morto, continua a vivere. Poi nasce l’anima, l’insostanziale ma reale gemella del corpo, reale ma mortale. La sopravvivenza è garantita all’anima che poi, alla fine dei tempi, si riunirà al corpo. E’ la prospettiva di un capitalismo ancora in nuce che non potendo mandare a ramengo tutto l’apparato sociale decide di perpetuarsi aumentando la diseguaglianza tra le persone pur promettendo alle stesse un’uguaglianza di là da venire. Con l’avvento dell’illuminismo questa prospettiva perde gradualmente sostenitori, senza però che questo desiderio latente si sopisca: il desiderio di sconfiggere il tempo che scorre. Jeremy, il personaggio che apre il libro, è il colto studioso inglese che ci permette, attraverso le sue parole e le sue azioni, di leggere tutto questo. Egli giunge nel mondo nuovo – Oh, Brave New World –  per dedicarsi al lavoro di recupero di un lascito di documenti originali di un’importante famiglia inglese, comprati da un ricco industriale americano. Costui, mr. Jo Stoyte, ha creato in cima a una collina una residenza degna del miglior pessimo gusto, zeppa di opera d’arte europee e di una bellezza nostrana, Virginia Mounciple. Ha alle sue dipendenze un inquietante medico, Sig Obispo che sfrutta la paura di morire del vecchio Jo per vivere senza doversi occupare dei pazienti normali. E’ suo compito trovare un rimedio alla vecchiaia. Lo aiuta in questo il! giovane Pete, idealista reduce dalla guerra di Spagna, esonerato dal militare per via della miopia.
Inizia così, con la presentazione in poche pagine di tutti i protagonisti, questo dimenticato romanzo filosofico del grande Huxley. Visto l’argomento, la lettura, benché interessante, non è delle più scorrevoli, anche perché il punto di svolta è rappresentato dal ritrovamento tra le carte che Jeremy sta ordinando e che ci tocca leggere, dei diari di un vecchio nobile, già all’epoca interessato alla tematica dell’immortalità. Seguendo i suoi appunti e l’intrecciarsi delle vicende emotive di Sig, Pete, Virginia e Jo, torniamo in Inghilterra dove, in una cantina, troviamo due persone molto, ma molto vecchie (immortali?), tanto vecchie da essersi persino dimenticate la loro natura umana.
L’intento filosofico più che didattico, ché il filosofo non insegna niente, mostra, di Huxley è palese. Il vecchio sogno dell’uomo, di cui parlavamo all’inizio, s’è incarnato nella tecnologia che l’ha snaturato e l’ha reso comico nei suoi effetti. Per chi vuole diventare immortale, il consiglio amichevole è di leggersi il poema di Tennyson che dà il titolo al libro; oppure, per chi crede in una pedagogia del terrore, dare un’occhiata a cosa succede agli struldbruggs, personaggi dei meravigliosi viaggi di Gulliver.
Oppure ancora, per finire, scrivere dei libri che valga la pena ricordare.

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