Recensione: Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri

Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza
Bollati Boringhieri, pp. 311, euro 25
Traduzione Caterina D’Amico
  
Nella struttura di pensiero della modernità risiede il desiderio di eliminare l’ambivalenza. Ciò deriva con ogni evidenza dal’intento razionalista di fondo del pensiero moderno, che ravvisa nell’aderenza agli intenti della ragione l’unico e quindi non ambiguo modo per ottenere la felicità. Ora noi che siamo diventati a nostra insaputa postmoderni dobbiamo chiederci se questa eliminazione sia fattibile e, soprattutto, desiderabile.
Per gli ‘altri’, per coloro che non rientrano di prima battuta nelle spire del modernismo, aderire a questo mondo significa abbandonare tutta una serie di sicurezze che la vita basata sulle abitudini tramandate assicura. Gli ‘altri’ si sentono obbligati a farlo per il motivo concreto che il paradigma modernista, sottomettendo gradualmente la natura ai propri intenti, ha fornito un mondo apparentemente più docile ai bisogni dell’uomo; meglio, ha fornito un paradigma interpretativo che rende positivo, non criticabile, l’aumento di complessità necessario per addomesticare i bisogni. La complessità, in barba al rasoio di Occam, smette di essere guardata con sospetto.
“Possiamo dire che l’esistenza è moderna nella misura in cui si biforca in ordine e caos. L’esistenza è moderna nella misura in cui contiene l’alternativa tra ordine e caos” (p. 16). Con l’ingenuità dovuta alla prima volta, il modernismo non si rende conto che l’alternativa non è così semplice. In effetti, l’uomo può scegliere tra poco ordine e poco caos o molto ordine e molto caos. L’incremento di uno degli opposti fa crescere l’altro. Questo fatto è ormai perfettamente noto ed ha delle conseguenze ben precise sulla gestione politica della società attuale su cui torneremo fra poco. Occorre però prima vedere a cosa ha portato l’accettazione irriflessiva del paradigma modernista da parte dei governi costruiti sul crollo dei regimi monarchici.
“L’intolleranza è dunque la naturale inclinazione della pratica moderna. La costruzione dell’ordine fissa i limiti dell’incorporazione e dell’ammissione. Esige che si neghino i diritti, e i fondamenti, a tutto ciò che non può essere assimilato: richiede cioè la delegittimazione dell’altro. Finché il bisogno di mettere fine all’ambivalenza guiderà l’azione collettiva e individuale, il risultato sarà l’intolleranza anche se si nasconderà sotto la vergognosa maschera della tolleranza” (p. 18). Il processo di assimilazione messo in atto dal modernismo è, come tutti i processi storici, dialettico; se da un lato consente l’acquisizione di diritti (diritto al lavoro, alla salute, alla cittadinanza, etc….) dall’altro li nega a chi non si vuole assimilare; meglio, non lo nega esplicitamente, perché la linea guida del modernismo è l’eguaglianza teorica, ma lo nega prima implicitamente, nella prassi, per giungere poi, nei casi più imperdonabili, alla teoria che sostiene una prassi di segregazione o addirittura soppressione fisica: è il nazismo, per chi non l’avesse capito. La costruzione dell’idea di popolo attorno alla nazione fa si che tutto ciò che proviene dall’esterno sia vissuto come non-popolo, quindi nemico. Questa atmosfera di avversione all’estraneo spinge quest’ultimo all’assimilazione; ma qui entra in causa la contraddittorietà del progetto illuminista di eliminazione dell’ambiguità. Il caso degli ebrei è in tal senso paradigmatico.
Quanto più l’ebreo tenta di assimilarsi tanto più emerge il suo essere-ebreo. L’ebreo è tale anche nel modo di non esserlo: “Essendo il più sensibile tra i membri di quella generazione, Kafka comprende quello che gli altri notano a stento, e solo con riluttanza: che è ebraico persino il suo modo di non essere ebreo (e lo steso vale per tutti). E’ l‘assimilazione a generare la realtà a cui ci si sforza di assimilarsi. L’assimilazione si alimenta di se stessa e finisce per diventare il suo unico scopo. Conduce lontano dal mondo che si lascia dietro, ma non si avvicina a quello che le sta davanti, a cui in apparenza mira” (p. 103). Vi è quindi l’irraggiungibilità di una posizione all’interno delle neonate culture nazionali da parte degli stranieri. Il fondamentale principio umanista dell’illuminismo viene qui a trovarsi in aperta contraddizione interna. Ma, dato che è il principio che ha strutturato la società non può ancora essere negato. La non assimilabilità dello straniero non dipende dal metodo di assimilazione ma dallo stesso straniero: “Potremmo concludere che definire l’estraneità come un fenomeno culturale è il punto di partenza di un processo che conduce inesorabilmente ad una rivelazione: non si può desiderare che l’ambivalenza esca dalla nostra esistenza; e l’estraneità ha fondamenti molto più solidi e molto meno manipolabili delle differenze di opinioni e stile di vita create dall’uomo, transitorie e meramente culturali. Quanto più ha successo la pratica di assimilazione culturale, tanto più rapidamente viene scoperta questa verità, dal momento che l’incongruenza sempre più caparbia dello straniero che si assimila è di per sé il prodotto della sua assimil! azione. L’intrinseca impossibilità di realizzare il programma di auto perfezionamento è allora interpretata come inettitudine o malanimo dello straniero, ovvero incapacità o riluttanza a perfezionarsi. Sulla scia della sconfitta rivelatrice del programma di assimilazione culturale, a incontrare favore è allora l’idea del destino della razza” (p. 89).
Per il pensiero comune, la sconfitta storica di questa idea non ne testimonia la mancanza di fondamenti ma solo la sua inapplicabilità in generale; si ha una balcanizzazione dell’idea di destino naturale, tanto che gruppi sempre più piccoli reclamano il proprio diritto ad auto determinarsi. Un diritto che è, in sostanza, quello ad essere più ricchi e più in grado di altri di fronteggiare l’ingiustizia di cui il mondo pare oggi, nella consapevolezza comune, ineludibilmente intessuto. Per arrivare a questa condizione ci sono voluti parecchi anni e la cooperazione involontaria (?) del corpus di idee fornito dalla psicoanalisi. Nel cuore della psicoanalisi regna l’idea di interpretazione infinita. Ogni fatto non è altro che un testo, cui si può applicare un’interpretazione che ne definisca il significato. L’unico problema è che ogni interpretazione non fa che allontanare il significato e privare di potere qualsiasi posizione che rifiuti di essere sottoposta ad interpretazione. Se questa è una condizione fondamentale per l’affermazione della libertà del singolo, diviene in breve evidente che il singolo non è, o raramente lo è, in grado di fornirsi da solo di un’interpretazione del reale che sia consistente. Ecco allora che interviene il mercato fornendo interpretazioni, ruoli, già pronti, non criticabili e, soprattutto, non interpretabili; cosa questa massimamente desiderabile, visto l’effetto disgregante dell’interpretazione.
“L’attrattiva delle identità promosse sul mercato risiede nel fatto che i tormenti dell’autocostruzione e della conseguente ricerca dell’approvazione sociale per il prodotto finito o cotto a metà sono rimpiazzati dell’atto meno straziante e spesso piacevole della scelta tra modelli preconfezionati. (…). Nel momento in cui simili alternative si rendono disponibili e acquistano popolarità, il metodo originario di risolvere il problema della formazione della propria personalità tramite l’amore reciproco ha sempre meno probabilità di successo. (…). Con ogni probabilità la capacità di resistenza sarebbe maggiore e lo sforzo e il sacrificio sarebbero più frequenti, se non fossero disponibili sostituti facili” (p. 227). Non prevista è emersa la naturale conseguenza dell’acquistabilità dei formati individuali. Se il ruolo che ho scelto non mi va più bene, posso rinunciarci e scegliermene uno nuovo. E’ la liquidità, di cui Bauman ci ha tanto parlato.
La convergenza tra gli intenti liberatori della psicoanalisi – perché la psicoanalisi al di là delle applicazioni degradate di cui si è riempita l’aria è effettivamente una teoria verso la libertà – e gli intenti di controllo del mercato dimostra semplicemente che la libertà, la capacità di accettare l’ambivalenza come componente irrinunciabile della vita, costa di più dell’omologazione ed è per questo più impopolare. Ma non è più nemmeno del tutto ostile. L’ostilità è un atteggiamento della modernità: oggi bisogna essere tolleranti. Il passare del tempo ha fatto sì che l’ambiguità venisse accettata come componente irrinunciabile; ma dell’individuo, non della realtà: “Una volta dichiarata nemico mortale di ogni ordine sociale e politico, l’ambivalenza non è più nemico alle porte. Al contrario: come ogni altra cosa, è stata trasformata in uno dei sostegni di scienza della commedia chiamata postmodernità” (p. 311).
La struttura rappresentativa di questa commedia si è costruita appunto sulla rinuncia ad una realtà non contrattabile; tutto il reale è oggi questione di punti di vista, anche le miserie umane dipendono da un atteggiamento sbagliato, non dall’oggettività dei rapporti produttivi. La chiarezza va portata al livello del soggetto, quindi al livello privato. E’ qui che è possibile, secondo l’ideologia dominante, affrontare l’ambivalenza e vincerla: una vittoria passibile di sconfitta, ovviamente: “Di fatto l’esperienza della vita è considerata ambivalente se la vita senza ambiguità si offre come opzione fattibile” (p. 230). La sconfitta ripetuta lascia la porta aperta ad un nuovo tentativo e così via, all’infinito, con l’offerta di mercato che si inchina e ringrazia.
“Come ha suggerito Dick Higgins, esistono quesiti cognitivi e postcognitivi. (…). Proiettando indietro usi lessicali più recenti, Brian McHale ribattezza i quesiti di Higgins, rispettivamente, modernisti e postmodernisti. Osserva anche che, secondo le ripartizioni filosofiche ortodosse, i quesiti cognitivi appartengono all’epistemologia, mentre quelli postcognitivi sono essenzialmente ontologici; pertanto i quesiti postcognitivi non sono per nulla cognitivi; almeno non in senso stretto” (pp. 118-119). La privatizzazione della risposta all’ambiguità reale significa appunto riconoscere che non vi son risposte allo stato delle cose e che quindi tanto vale rivolgere domande ontologiche che, come già sappiamo, non hanno risposta.
La postmodernità è un modo come un altro di passare il tempo?

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