Recensione: Percival Everett, La cura dell’acqua

Percival Everett
LA CURA DELL’ACQUA
Edizioni Nutrimenti, pp. 194, € 15
Traduzione di Marco Rossari

A Ishmael Kadder viene rapita la figlia, Lane. Due giorni dopo la polizia la trova morta e stuprata in fondo ad un burrone. Sembra l’incipit di:
a) un romanzo pulp
b) una storia strappalacrime
Contrariamente a quanto vi aspettereste logicamente, tertium datur, poiché non stiamo discutendo dell’esistenza del vuoto o della natura dell’anima. Everett – e questo è il suo terzo romanzo tradotto – ci ha già abituato alla possibilità di gettare sguardi inaspettati sulla realtà, assolvendo così appieno il ruolo che l’intellettuale dovrebbe svolgere; e nemmeno questa volta ci delude. Ishmael, che per mestiere scrive sotto pseudonimo romanzi rosa, rintraccia il depravato che gli ha ammazzato la figlia e lo sequestra a sua volta. Vuole ‘curarlo’ con il waterboarding, una tecnica di tortura che consiste nel legare una persona a un asse per lavare leggermente inclinato, coprirgli il capo e versargli lentamente ma continuamente dell’acqua sulla testa.
Ma si entra in una situazione di stallo. Il passaggio all’atto della vendetta è pensato più che agito, e mentre seguiamo Ishmael nei suoi ragionamenti, spesso poco attinenti al suo dramma, conosciamo la sua ex moglie, la sua editor e tutto il piccolo mondo che ruota attorno a questo scrittore. Il romanzo non è pulp perché non è una realtà degradata quella che ci viene descritta, anzi; Everett riesce a far parlare il suo personaggio in maniera assolutamente credibile di Eraclito e Aristotele, di rapporto tra significante e significato, di nefandezze del sistema politico americano – il libro è stato scritto quando al governo c’era Bush jr. – e di mille altre amenità che quelli che scrivono per vendere non si sognano nemmeno di trattare, se non in quella maniera stereotipata che il largo pubblico può assorbire senza sentirsi turbato. E non è nemmeno un romanzo strappalacrime perché il dolore è, viva iddio, privato e tale resta nella descrizione che ne fa Everett.
È un romanzo metaforico, come ci lascia intuire la frase in copertina: ‘mi vergogno quando il mio paese stupra il mondo’. Il destino finale dell’assassino è tutto quello che noi posiamo fare a chi stupra il mondo. Pensare ad una struttura soggiacente ad una storia aiuti a rendere la stessa storia più sensata, specie in questo caso, dove il livello superficiale della narrazione è tanto esile da renderne difficile lo svolgimento attraverso i riferimenti colti dello scrittore, le sue invenzioni linguistiche degne del miglior Joyce ed il suo non concedere nulla al senso comune.
Romanzi come questo sono delle perle rare nel panorama della letteratura. Ed è inevitabile che lo restino perché la realtà di cui parlano è una realtà estremamente colta, una realtà non immediata ma proprio per questo più reale – per quella immediata e quindi meno reale ci sono i romanzi di Wilbur Smith – che per essere goduta deve essere volontariamente scelta. Questo romanzo è un modello, proprio come l’Ulisse lo è stato per molti scrittori successivi – anche se inizialmente venne venduto in poche copie e con un prezzo superiore ai libri normali – e continua ad esserlo per quelli attuali (non a caso Everett cita Joyce al termine di questo libro); ma, con acume, è un modello che si accontente di assumere un valore diminuito, perché è cambiata la fase storica e nulla è oggi in grado di diventare riferimento per una platea universale. Everett si accontenta del suo lavoro di qualità, consapevole che alla cura dell’acqua possono soccombere tutti.
Vittime e carnefici.

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