Frederick Jameson, Postmodernismo, Fazi

Frederick Jameson, Postmodernismo,
Fazi, pp. 415, euro 39.50
traduzione Massimiliano Manganelli

Non è bello iniziare una recensione citando direttamente il testo, e per di più in una forma molto estesa. Fatto sta che siamo di fronte ad uno studio di estrema complessità e non ho trovato altro sistema per iniziare a parlarvene che procedere attraverso il commento di questa frase nella quale, essendo di un marxista, ho trovato tre punti salienti.
“C’era una volta, agli albori del capitalismo e della società borghese, una cosa di nome segno, che sembrava intrattenere rapporti senza problemi con il proprio referente (…). Questo iniziale rigoglio del segno – il momento del linguaggio letterale o referenziale, o delle perentorie affermazioni del cosiddetto linguaggio scientifico – fu il frutto della dissoluzione corrosiva delle vecchie forme del linguaggio magico da parte di una forza che chiamerò reificazione, contraddistinta da una logica implacabile di separazione e disgiunzione, di specializzazione e razionalizzazione, di divisione tayloristica del lavoro in tutti gli ambiti. Purtroppo questa forza perdurò senza tregua, essendo la logica profonda dello stesso capitalismo. Perciò, questo primo momento di decodifica o di realismo non può durare a lungo; grazie a un rovesciamento dialettico diviene a sua volta l’oggetto della forza corrosiva della reificazione, che irrompe nell’ambito del linguaggio per separare il segno dal referente. Tale disgiunzione non abolisce completamente il referente, il mondo oggettuale, la realtà, che continuano a condurre una debole esistenza all’orizzonte, come una stella contratta o una nana rossa. Tuttavia la grande distanza dal segno consente ormai a quest’ultimo di dare inizio a un movimento di autonomia, di esistenza utopica relativamente libera in confronto a quella dei suoi ex oggetti. Questa autonomia della cultura, questa semiautonomia del linguaggio, rappresenta il momento del modernismo, e di un ambito dell’estetico che raddoppia il mondo senza esserne completamente parte; conquista così un certo potere negativo o critico, ma anche una certa futilità oltremondana. Eppure la forza della reificazione, responsabile di questo nuovo momento, non si arresta lì: in un’altra fase, intensificata, in una sorta di rovesciamento della quantità in qualità, la reificazione penetra nel segno medesimo e separa il significante dal significato. Il referente e la realtà ora scompaiono del tutto, e persino il senso – il significato – si problematizza. Siamo rimasti con questo gioco di significanti puro e aleatorio che chiamiamo postmodernismo, il quale non produce più opere monumentali sul genere di quelle del modernismo, ma rimescola ininterrottamente i frammenti di testi preesistenti, i mattoncini della vecchia produzione socioculturale, nel quadro di un nuovo e intenso bricolage” (pp. 109-110).
Dato che l’oggetto del libro è il postmodernismo, i tre punti sono parole.
In primo luogo vi è la parola reificazione. Nei suoi primi millenni di evoluzione, a dispetto di qualsivoglia tesi creazionista, l’uomo ha imparato a vivere con un ambiente ostile – la natura ria matrigna di cui parla Leopardi – ed ha realizzato questo adattamento trasformando la Realtà in cose, dividendo la Realtà in frammenti più facilmente controllabili, misurabili, taylorizzabili. Fortunatamente la sua consapevolezza di questa dinamica è scarsa, siamo ancora nella fase in cui il referente è sicuro. La Realtà è salva.
La seconda parola è modernismo. Pian piano le parole si sono staccate dal loro referente, si è venuta sviluppando l’idea che in ogni ambito espressivo fosse possibile sviluppare un discorso specifico per risolvere i problemi che in quell’ambito si sviluppano. Così l’architettura è un linguaggio atto a risolvere i problemi architettonici e la letteratura uno atto a risolvere quelli letterari. Vi è però ancora una memoria del bel tempo passato, in cui il referente delle parole era unico, in cui la parola era immanente all’oggetto. Si tenta quindi, nel periodo del modernismo, da fine ottocento al boom economico, di continuare ad esprimere un qualcosa di universale attraverso un linguaggio che si fa giocoforza sempre più particolare.
La consapevolezza di questa relatività dei linguaggi, l’unico mezzo che abbiamo per pervenire alla coscienza del tutto, è la molla che porta al centro dell’attenzione la terza parola, testi. Se il reale non è direttamente percepibile, ma solo descrivibile, ciò avverrà tramite parole, le quali si organizzeranno in testi. Teoricamente – modernismo – i testi dovrebbero confrontarsi per stabilire qual è più vicino al vero. Di fatto – postmodernismo – ogni ‘testo’ ritaglia una sua fetta di mercato. Però il mercato non è libero, e quindi alla fine il ‘testo’ che meglio rispecchia gli interessi del capitale avrà la meglio su tutti gli altri: è la globalizzazione.
“(Occorre) intendere il postmodernismo non come uno stile, ma piuttosto come una dominante culturale”(p. 21). Non si ha in altri termini uno stile postmodernista da contrapporre ad uno modernista, ad uno classicista e così via, bensì qualsiasi stile si voglia affermare oggi deve contenere in sé parti precise di postmodernismo. Dato che non è un qualcosa di unitario, è possibile fornire diversi elementi, presi da discipline diverse, per connotare questa tendenza.
– vi è la rinuncia ad un’interpretazione forte, ovvero che rimandi ad un in sé indipendente dal soggetto
– la vittoria della reificazione si traduce nella vittoria dell’immagine come realtà suprema
– se l’immagine è la migliore approssimazione possibile che possiamo avere del Reale, l’eterno connubio di spazio e tempo quali dimensioni irrinunciabili attorno a cui costruire l’esperienza si sta risolvendo a favore dello spazio
– non vi è più alcuna distinzione tra dentro e fuori; se tutto è spazio, tutto è fuori
– vi è un indebolimento del significato degli affetti che si fondano sul tempo e non sono reificabili, non sono cioè traducibili in parole.
– il postmodernismo è il periodo in cui si è realizzata la vittoria del nominalismo sul realismo.
I passi per giungere a questa conclusione sono tutti contenuti nei sei punti elencati, anche se non è proprio un ragionamento deduttivo ma per lo più implicativo. Per ragioni di spazio e di tempo non è possibile fornire tutti i dettagli per svolgere le implicazioni, che lascio all’intuizione del lettore. Mi limiterò a chiarire solo l’ultimo passaggio, il più importante.
Intendiamo con realismo la dominante filosofica che ha inteso il mondo come diretta emanazione di una realtà superiore, del cui operato l’uomo era chiamato a scovare le tracce. In questo momento non vi è alcun problema nella definizione del rapporto tra significante e significato. Il nominalismo è la filosofia che, sin dalla fine del primo millennio dell’epoca cristiana, ha tentato di garantire una validità alla conoscenza particolare, una conoscenza che si realizza giocoforza a prescindere da ogni significato universale; attenzione, il significato universale, benché tendenzialmente oppressivo perché imposto – per tradizione dalle chiese – è anche l’unica possibilità di un comune piano democratico su cui svolgere un discorso circa il Reale. L’opposizione realisti vs nominalisti proseguirà fino a tempi recenti con il dipolo idealisti vs empiristi. Entrambe le correnti erano comunque teorie fondazioniste, ovvero teorie che riconoscevano il bisogno di un punto di partenza indiscutibile. Il postmodernismo no. Il postmodernismo non ha bisogno di attaccarsi a nulla, se non al potere della dinamica economica, di cui è la perfetta epitome. Il postmodernismo è la realizzazione del valore universale del particolare.
Per assurdo possiamo vedere nel modernismo – seconda fase – l’affermazione incompleta degli ideali di uguaglianza, libertà e fratellanza che tanto abbiamo sperato realizzarsi e che hanno segnato il suo sorgere; il compimento di questi ideali è il postmodernismo – terza fase – che li nega sistematicamente. Questa negazione è compiuta attraverso la frammentazione dell’esperienza individuale. Questo risultato è ottenuto, secondo Jameson, dirigendo l’attenzione della gente sul mercato, ritenuto il regolatore automatico della vita sociale, invece che sul controllo dei mezzi di produzione, unico strumento, come diceva Marx, attraverso il quale è possibile la formazione di una coscienza proletaria.
“Eppure, onde evitare fraintendimenti, vale la pena affermare che l’analisi del capitale condotta da Marx non è produttivista, e che l’abbozzo del 1857 dei Grundrisse sostiene l’indissolubilità dialettica delle tre dimensioni della produzione, della distribuzione e del consumo. Se, a dispetto di questo Marx è sempre stato inteso come chi vede nella produzione la chiave per comprendere gli altri processi, ciò è accaduto perché la tradizione del pensiero economico antecedente e successiva si ostina ad assolutizzare il consumo e il mercato. L’affermazione del ‘primato della produzione’ offre il modo più efficacie e valido per straniare e demistificare le ideologie del mercato medesimo e dei modelli capitalistici incentrati sul consumo. Quale visione del capitalismo, dunque, l’affermazione del primato del mercato non è nient’altro che pura ideologia” (p. 218).
Però.
Affermare la necessità del primato del momento della produzione sul momento del consumo può valere teoricamente, nel migliore dei mondi possibili, a livello di ideologia, ma nel nostro triste mondo sublunare dobbiamo fare i conti con un’ideologia che non ha nemmeno bisogno di fondarsi (un postmodernismo pienamente autonomo, che si giustifichi da sé, è in definitiva impossibile come ideologia, p. 260) , che come il noto barone sale verso la luna tirandosi per i capelli e che quindi non può essere criticata teoricamente, ma solo nei fatti; ma qualunque critica pratica, nei fatti, è molecolare e, se non partecipa del postmoderno, il che è peraltro impossibile (“la via di ritorno verso il moderno è sbarrata per sempre”, p. 165), è immediatamente destituita di valore. Il punto nodale è che globalizzazione, che fino a questo momento non abbiamo citato ma che era presente come uno spettro aggirantesi per l’Europa, e postmodernismo sono legati a filo doppio, essendo la prima la dimensione economica ed il secondo quella culturale di una medesima forma mentis. Per nostra fortuna, la mente non è completamente globalizzabile e quindi non può divenire completamente postmoderna, essendo costituita più da percorsi che non da unità intercambiabili. L’unica cosa che dobbiamo però segnalare con un certo allarme, è l’aumento dell’ideologia presente nella vita quotidiana , il che implica l’aumento della difficoltà a percepire questa ideologia.
E questo libro, in quanto strumento anti-ideologico, è un esempio di questa difficoltà.

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