Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali, Bollati Boringhieri

Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali
Bollati Boringhieri, pp. 223, euro 16
traduzione Guido Franzinetti
titolo originale Legislators and Interpreters

La figura dell’intellettuale nasce relativamente tardi nella storia dell’occidente. Più antica invece, connaturata forse alla stessa natura della società umana e non limitata al solo occidente, è la divisione tra coloro che si occupano della realtà materiale e coloro che, con la realtà materiale, hanno un rapporto più mediato: “Quel che Radin (1938) scoprì per prima cosa fu l’esistenza di due tipi generali di carattere tra i popoli primitivi: quello del prete-pensatore e quello dell’uomo comune; il primo solo accessoriamente identificato con l’agire, il secondo soprattutto con esso; l’uno interessato all’analisi dei fenomeni religiosi, l’altro ai loro effetti” (p. 20).
Di queste due classi umane, la meno numerosa è quella del prete-pensatore. L’appartenenza a questa classe è una fortuna, perché garantisce privilegi. In questo modo sin dalle loro origini le società umane, sempre bisognose di una garanzia contro le incertezze del mondo materiale, hanno creato una classe sociale che spiegava il mondo. Il termine classe sociale è però improprio, per ora, in quanto la numerosità degli addetti alla spiegazione era assolutamente risibile. Fino al ‘500 gli uomini di cultura, che non esistevano nemmeno con tale nome, parlavano solo per addetti ai lavori secondo norme ben codificate.
Le spiegazioni del mondo non comprendevano la realtà sociale, che da sempre costituiva un’unità autoregolantesi; non c’era bisogno di leggi scritte e normative minuziose per regolare la vita della gente dei villaggi e delle piccole cittadine. Ma, l’approssimarsi del secolo dei lumi, richiese degli aggiustamenti. Quando i Philosophes francesi del ‘700 iniziarono a discutere di come trasmettere il lume della ragione al popolo, si era già in una situazione di accentuato disequilibrio. Il bisogno di educazione generalizzata non fu, come ingenuamente credevano, l’espressione del bisogno della ragione, di cui loro erano il tramite, di raggiungere tutti. Era invece il risultato della richiesta implicita di un potere che si stava indebolendo di trovare giustificazioni alle regole che si voleva la gente minuta seguisse scrupolosamente.
La rivoluzione francese, con il ben noto seguito del Terrore, è il coronamento pratico della teoria degli illuministi francesi: “…la sostanza del radicalismo illuminato si rivela come una spinta a legiferare, organizzare e regolamentare, piuttosto che diffondere conoscenza” (p. 89).
Note le conseguenze di questa applicazione, possiamo già individuare uno dei principali problemi con cui gli intellettuali devono fare i conti. Essi da un lato colgono il mondo della ragione, regolato dalle idee, e ne vedono la perfezione; dall’altro, vivono in un mondo in cui le idee spesso soccombono ai fatti. I fatti, in più, sono agiti da persone che alle idee non riconoscono tutta l’importanza loro tributata dagli intellettuali. Il primo compito dei Philosophes fu quindi quello di rendere consapevole il popolo della superiorità dei loro criteri di vita: “Dobbiamo sottolineare che il potere proselitista (…) non mira necessariamente a riplasmare i sudditi secondo la propria immagine, eliminando così la differenza tra i due modi di vita. Quel che esso ricerca, spietatamente e irriducibilmente, è il riconoscimento da parte dei sudditi della superiorità del tipo di vita che esso rappresenta e da cui trae la propria autorità” (p. 63). La crociata per i valori illuministi fece perdere di vista il primo corno dialettico (cambiare le condizioni materiali di vita del popolo) restando concentrati sul mantenimento dello status sociale che si stava affermando.
I Philosophes entrano così a pie’ pari nell’insanabile dinamica potere-sapere di cui parla Foucault. Il loro tentativo di rimodellare la società abbisogna di potere, mentre loro detengono solo il sapere. Sul versante opposto, il potere non ha bisogno di tutto il sapere che gli può essere fornito. Napoleone liquiderà i tentativi di ingerenza del sapere teorico. I vari governanti europei che lo seguiranno, si accontenteranno delle pratiche di controllo panottico, che troviamo ampiamente commentate in Sorvegliare e Punire. Si arriva così all’epoca contemporanea, postmoderna. In essa gli intellettuali generali si trovano nella scomoda posizione di coloro che credono di sapere come dovrebbero andar le cose ma non hanno le capacità di indirizzarle.
Quello che abbiamo brevemente descritto è il passaggio dal filosofo legislatore, colui che fornisce le regole che gli altri devono seguire, al filosofo interprete, colui che spiega agli altri le dinamiche in base alle quali le cose vengono compiute. Quest’ultimo periodo viene descritto da Bauman con termini che in parte giustificano la traduzione del titolo scelta dalla Bollati.
Dato che il potere ha scelto di limitare gli effetti del sapere, gli intellettuali che si accontentano di interpretare legittimano qualunque posizione, quindi anche quella del potere che seduce i sudditi attraverso l’offerta dei beni di consumo. In questo senso sono eredi diretti degli illuministi francesi: “L’antistrategia di Rorty sembra adattarsi molto bene all’autonomia e alla preoccupazione istituzionalmente incoraggiata della filosofia accademica per la propria autoriproduzione” (p. 223).
Quello che abbiamo brevemente descritto è il passaggio dal filosofo legislatore, colui che fornisce le regole che gli altri devono seguire, al filosofo interprete, colui che spiega agli altri le dinamiche in base alle quali le cose vengono compiute. Dato che il potere ha scelto di limitare gli effetti del sapere, gli intellettuali che si accontentano di interpretare legittimano qualunque posizione, quindi anche quella del potere che seduce i sudditi attraverso l’offerta dei beni di consumo. In questo senso sono eredi diretti degli illuministi francesi: “L’antistrategia di Rorty sembra adattarsi molto bene all’autonomia e alla preoccupazione istituzionalmente incoraggiata della filosofia accademica per la propria autoriproduzione” (p. 223).
Il libro di Bauman è una critica pacata ma inappellabile al passaggio deliberato e interessato della maggioranza degli intellettuali al ruolo di interpreti. La funzionalità di questo passaggio agli interessi del potere sarà analizzata meglio nel libro della prossima settimana. Questa critica però non significa reclamare un valore assoluto al ruolo di legislatore. Per chiarire questo l’importanza di questo punto, occorre fare un passo indietro nel tempo. La storia della filosofia, dai presocratici in poi, ha avuto alcune figure che si distinguono per quello che potremmo definire uno scetticismo illuminato. Pensatori che non erano animati dal desiderio di spiegare tutto, ma di scoprire. Ad esempio, prima che Cartesio ponesse le basi del razionalismo, garantendo circa le possibilità della ragione umana di raggiungere certezze definitive, Montaigne, sul finire del ‘500, pone seri dubbi circa queste possibilità. Per mantenere questi dubbi, senza scivolare nel nichilismo o nell’interpratazionismo fine a se stesso, occorre mantenere un legame con le cose materiali che, gli eredi dei Philosophes francesi hanno da tempo smarrito: “In questo senso la civilisation era il tentativo collettivo di uomini di scienze e di lettere di conquistare una posizione strategicamente cruciale nel meccanismo di riproduzione dell’ordinamento sociale. Un abisso separava le ambizioni dei civilizzatori dalla scettica modestia di Montaigne” (p. 109). La scettica modestia di cui parla Bauman mi pare sia rara avis oggigiorno e quindi, ancora una volta, mi pare il caso di ricordare la soluzione di Epicuro. Una piccola comunità, pane, una ciotola di cacio e discorsi liberi attorno al mondo reale.
E un filosofo che dica cosa fare.

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