Recensione: M. Benasayag e B. Cany, Corpi viventi

Alcune importanti considerazioni sulla vita dell’uomo d’oggi attraverso le parole di uno degli autori de L’epoca delle passioni tristi, un libro che, uscito all’inizio del XXI secolo, ha ancora molto da dire.

Miguel Benasayag e Bastien Cany
CORPI VIVENTI
Edizioni Feltrinelli, pp. 264, € 22
Traduzione di Eleonora Missana

“In questo libro porteremo avanti l’elaborazione di un’ontologia fenomenologica (…) che non soltanto non si incentra sulla ricerca delle origini, di qualunque tipo siano, ma rinuncia anche a qualsiasi nozione di un principio primo, motore immobile o punto alfa” (p. 57). Questa espressione d’intenti dovrebbe già chiarire dove va a parare questo libro. Esso si pone nel solco della filosofia più attenta al reale, che ha sempre cercato di salvare l’individuo sia da un eccesso di normatività (c’è una ragione che spiega tutto) sia da un eccesso di aleatorietà (tutto è casuale e nulla ha in fondo senso). Il successo dei due poli ideologici succitati invece sta conducendo l’umanità verso un vicolo cieco, senza alcuna possibilità di fuga. Il libro inizia con questa frase, che può essere considerato come un manifesto programamtico: “Dobbiamo pensare e agire come se il nostro mondo potesse ancora reggere” (p. 11).
Anzitutto non c’è una ragione che spiega tutto. Se tale ragione esistesse non vi sarebbe più alcun imprevisto nello svolgimento della storia. Ciò si deve al fatto che nulla esiste al di fuori della situazione concreta in cui si trova l’individuo. Ma ciò non implica non non esista un reale che prescinde dalla situazione; non è vero cioè che tutto è narrazione. Il fenomeno, che è tutto ciò che possiamo conoscere della realtà, è come un velo steso al di sopra dello strato reale soggiacente e di tale strato è l’unica parte concepibile (cfr. p. 90).
Fatte queste premesse gnoseologiche entriamo più nell’oggetto della discussione e cerchiamo di capire come le tecnologie digitali stiano cercando di cambiare la realtà, e con essa l’uomo che alla realtà appartiene. Anzitutto le tecniche digitali non cercano di controllare o disciplinare i territori dall’esterno ma si pongono come una traduzione diretta, più fedele, della realtà stessa. Queste tecnologie non sono una semplice mappa (rappresentazione) di un territorio (reale), sono esse stesse il reale, l’unico che la persona d’oggi può conoscere. Questa persona, più che un pensiero cui consegue un agire, pare un semplice fare, legato agli stimoli del mondo digitale. Chi è preda della tecnologia cessa di essere un individuo, diviene un profilo. Il profilo acquisisce e cede informazioni, partendo da un fraintendimento dell’ideale kantiano. Chi pensa bene agisce il bene non è più vero, perché in assenza di libertà non vi è più azione, ma solo reazione meccanica ad uno stimolo: “Si comprende in tal senso il vicolo cieco in cui finiscono le nostre società facendo dell’informazione cosciente il fondamento necessario di ogni atto. (…) Più sono informato meno posso agire” (pp. 116-117).
La presa di possesso del mondo da parte dell’uomo civilizzato, industrializzato, è stata possibile grazie alla reificazione del mondo, attraverso la spoliazione progressiva della parte mitica che ha sempre animato la realtà; se ciò, da un lato, ha portato indubbi vantaggi materiali, dall’altro ha avuto l’imprevedibile conseguenza che alla reificazione del mondo s’è accompagnata la reificazione del soggetto. La persona diventa così parte del funzionamento globale e “da tale funzionamento (…) non emerge più alcun soggetto né alcuna soggettività” (p. 165).
La soluzione a questa empasse per il soggetto, che da blocco rischia di passare a sconfitta, sta tutta nella riscoperta dei legami che con il loro portato di gioia aprono costantemente nuove dimensioni dell’esistenza; nuove e quindi imprevedibili, ovvero non digitalizzabili per via di quel velo fenomenico di cui si diceva. “La sfida del lavoro intrapreso in questo volume non è quindi sapere come ridare potenza all’agire di un individuo che non incarna più quella potenza di agire” (p. 213). Attraverso la costruzione di legami tra individui si può arrivare ad abitare situazioni che prescindono da ogni necessità di essere determinate dal punto di vista digitale. La condivisione di “strati pre-individuali del comune” (p. 173) porta all’acquisizione della libertà d’azione. Il pensiero e non l’informazione torna ed essere il tratto distintivo dell’individuo.
“Nella postpolitica, la non ideologia tecnocratica ha trionfato e invalida ogni aspirazione ideologica ratificando la sostituzione della promessa del sol dell’avvenire con la credenza nell’efficacia della tecnica” (p. 219). A questa cieca fiducia nella tecnologia, che più che una cieca fiducia è in effetti un inconsapevole affidarsi ad essa, occorre opporre un’etica situazionale che “si basa sulla possibilità di accettare quel nucleo di impensabilità iscritto nell’incertezza con e attraverso la quale ogni agire è possibile” (p. 241).
Solo così potremo pensare e agire contro la catastrofe.

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